Vittorio Marchis, Avvenire 20/1/2011, 20 gennaio 2011
CRAVATTE, DALL’ARISTOCRATICO GNOLI AL SOLDATO TONDELLI
« Quanta strada aggio fatto / pe sagli’ sta furtuna | senza giacca e cravatta / accussi’ so’ venuto / mmiez’ ’e facce ’mportante / c’hanno tuccato ’a luna / guardo areto ogni tanto / pe’ capi’ addo’ so’ghiuto…», canta Nino D’Angelo in una sua lirica. Senza giacca e cravatta può essere invece oggi un segno di snob, come accade all’amministratore delegato della Fiat. Non è certo più un segno di anticonformismo e anche se al Senato della Repubblica italiana è d’obbligo agli uomini di frequentare l’aula con giacca e cravatta, bisogna ricordare che nel luglio del 2007 di fronte alle ondate di caldo il ministro della salute Livia Turco emanò una circolare con cui esonerava i dipendenti pubblici e privati dal mettere la cravatta. Le mode cambiano e proprio su questo oggetto tipico dell’abbigliamento maschile (ma non solo) nato per nascondere la fila dei bottoni della camicia si sono scritte pagine e pagine, che non è qui il caso di ripetere perché è sufficiente navigare un po’ nella rete. In cinese la cravatta, una cosa tipicamente occidentale solo recentemente arrivata nel lontano Oriente, diventa
lingdài ossia collo+nastro. Pochi ricordano che il più antico insediamento cinese in Italia risale ai primi anni ’20 a Milano nel quartiere Canonica-Sarpi. Era un gruppo di cinesi provenienti dalla regione dello Zhejiang e le loro prime attività furono legate alla lavorazione della seta, proprio con la produzione di cravatte, grazie alla vicinanza con gli impianti industriali del comasco. «Clavatte» offrivano questi artigiani cercando di ripetere una parola impronunciabile perché nella loro fonetica manca la lettera «erre».
Continuando un viaggio insolito intorno a questo pezzetto di stoffa che si annoda intorno al collo troviamo nel 1967 un gigantesco quadro di Domenico Gnoli, «un aristocratico del colore tra camicie e cravatte», come lo definì nel 1996 Sebastiano Grasso in un articolo apparso sul
Corriere della Sera in occasione di una mostra retrospettiva inaugurata a Cortina a trent’anni dalla sua prematura morte. La cravatta, o meglio ancora il suo nodo, si allarga sino a diventare una iperrealistica rappresentazione del mondo perché sono le cose banali, come i bottoni o il risvolto di un lenzuolo, a farci intuire ciò che gli anglosassoni chiamano in-between:
una parola intraducibile che invita a dispiegare ciò che è annodato, nascosto. Nel nel nodo di una cravatta stanno nascoste alcune belle pagine scritte da Pier Vittorio Tondelli che ritroviamo nel ricchissimo scrigno di Un weekend postmoderno. La «tie society» diventa così dopo le contestazioni del Sessantotto e oltre, un nuovo mito. «La cravatta new wave è dunque rigorosamente nera, sottilissima, in seta. Apre la strada a un recupero del preppy , adatto non solo ai rampolli dei campus americani, ma anche a impiegatini, e soprattutto ai commessi d’abbigliamento». Siamo all’inizio degli anni Ottanta e Pier Vittorio Tondelli così ricorda una sua esperienza: «Per quanto mi riguarda posso solo raccontare di come, durante il periodo di leva, la cravatta abbia contribuito a celebrare alcuni momenti di libertà. Non potendo uscire in borghese, la notte, per recarmi a qualche pranzo, ero solito presentarmi in divisa, resa sfavillante da una serie di regimental scelte tra le più vistose, con preferenza a grandi strip gialle argento, rosso e argento, viola e gialle… Era il mio solo modo per sentirmi in libera uscita».