Antonio Socci , Libero 23/1/2011, 23 gennaio 2011
QUANDO IL CUORE SI FERMA CHE NON HAI NEPPURE
VENT’ANNi -
Prima di sbatterci violentemente la faccia per il dramma vissuto da mia figlia (che ho raccontato su queste colonne e in un libro) non avevo neanche l’idea di cosa fosse la morte per arresto cardiaco.
Avevo sentito parlare delle cosiddette “morti improvvise”, magari di giovani, su campi di calcio, ma come tanti non l’ho mai ritenuto un pericolo incombente. Casomai una fatalità remotissima. Eppure la morte improvvisa è come un lampo che può falciare, in una frazione di secondo, la vita di chiunque, di tutti noi, di persone che appaiono perfettamente sane fino a un attimo prima.
Solo in rarissime eccezioni si sopravvive e si può addirittura essere restituiti alla vita nel giro di poco tempo, come nel caso recente di Laura, la ragazza 31enne di Bologna che è stata in arresto cardiaco per 70 minuti (un caso tanto eccezionale che ne hanno parlato tv e giornali).
Tutti pensano che statisticamente morire per arresto cardiaco sia una rarissima evenienza, una statistica trascurabile. Pochi sanno che invece è una delle principali cause di morte.
È una vera e propria strage in corso: provoca infatti 60mila (sessantamila!) morti, ogni anno, in Italia. Più di una vittima ogni mille abitanti.
Per capire le dimensioni del fenomeno bisogna pensare che sommando ogni anno i morti per tumore ai polmoni (30mila), quelli per tumore allo stomaco (10mila), quelli per incidenti stradali (5mila), quelli per Aids (4mila), i morti sul lavoro (1.280), quelli per aneurisma addominale (6mila) e per droga (500), non si arriva a totalizzare 60mila morti.
Eppure quanto allarme sociale è stato suscitato e quante campagne di sensibilizzazione sono state fatte contro i tumori, l’Aids, la droga, gli incidenti stradali, il fumo e gli incidenti sul lavoro? Non solo campagne di sensibilizzazione, ma anche fiumi di articoli, leggi, iniziative, sottoscrizioni, provvedimenti, controlli.
Paradossalmente la morte per arresto cardiaco, che fa più vittime di tutti questi drammi sommati insieme, sembra un pericolo quasi sconosciuto. È un’ecatombe, però viene clamorosamente sottovalutata, snobbata o dimenticata.
Eppure, se consideriamo le cifre delle vittime per arresto cardiaco bisogna concludere che è come se in Italia senza che ce ne accorgiamo fosse sempre in corso la seconda guerra mondiale, dal momento che in quel terribile conflitto durato cinque anni il nostro Paese ebbe 443mila vittime (fra militari e civili) e l’arresto cardiaco arriva a totalizzare quel numero di vittime, anziché in cinque anni, in circa sette e mezzo. Quindi sono due stragi del tutto comparabili.
Allora cosa si può fare? Anzitutto bisogna conoscere e riconoscere la gravità di questo fenomeno, perché proprio la sua sottovalutazione impedendo che venissero prese tutte le possibili contromisure ha aggravato la sua mortalità.
In uno studio del 2002 si afferma che “la percentuale di sopravvivenza dopo arresto cardiaco è solo il 2-3 per cento”. Anche ritenendo come fanno alcuni che oggi si possa parlare del 5 per cento siamo sempre a percentuali tragiche. Per capire che si può fare moltissi-
mo bisogna paragonare queste statistiche a quelle di strutture dove è stato realizzato il cosiddetto “progetto Pad” (acronimo di “public access defibrillation”) in cui si raggiungono percentuali di sopravvivenza fra il 50 e il 65 per cento. Sono migliaia di vite umane salvate.
«Il progetto Pad» ci spiega il dottor Vincenzo Castelli, «significa semplicemente la presenza di un defibrillatore e di un team di persone addestrato ad usarlo in strutture fortemente affollate come complessi scolastici, aereoporti, ipermercati, cinema e metropolitane».
Il dottor Castelli ha fatto della prevenzione e la cura delle malattie cardiovascolari la sua missione di vita, in modo particolare, a tempo pieno, da quando uno dei suoi tre figli, Giorgio, classe 1989, «è morto esattamente per un arresto cardiaco la sera del 24 febbraio del 2006, mentre si stava allenando con la sua squadra di calcio su di un campo della periferia est di Roma».
Il dottore ricorda: «Io ero a Genova ad un convegno medico proprio sul cuore. L’altro mio figlio, Alessio che era anche lui lì, su quel campo di calcio, mi ha telefonato immediatamente ed io ho vissuto, impotente, il dramma a 500 chilometri di distanza. Il 118 è giunto dopo 18 minuti, troppi; fossi stato lì presente, ma senza defibrillatore, avrei potuto fare ben poco e forse il Padreterno ha voluto risparmiarmi l’ulteriore dolore di non essere riuscito a salvare mio figlio».
Un dolore indicibile, un dramma vissuto da tanti altri genitori. Ma dal quale, in questo caso, è sbocciato un fortissimo impegno per evitare ad altre famiglie tragedie simili. Così è nata la fondazione intestata al ragazzo, Giorgio Castelli, una onlus che in pochi anni ha già fatto moltissimo, soprattutto per dotare gli impianti sportivi di mezzi di soccorso d’emergenza adeguati (si può vedere il sito www.gc6.org).
Tutto si gioca infatti nei primi cinque minuti (già dopo il decimo minuto dall’arresto cardiaco la situazione è cupissima). «Ciò che manca in Italia» prosegue il dottor Castelli, «è una cultura della prevenzione e del soccorso d’emergenza che è cultura di vita, segno di civiltà e di attenzione al prossimo».
Il messaggio è semplice: non si può più accettare che la salvezza della vita per 60mila persone ogni anno sia affidata al caso, alla fortuna.
«Oggi» spiega Castelli, «la scienza ci mette a disposizioni mezzi efficaci per
la cardio-resuscitazione, utilizzabili con successo anche dai non sanitari, ma le Istituzioni debbono impegnarsi a renderli fruibili sul territorio: pensi che da quasi quattro anni c’è una proposta di legge sulla defibrillazione precoce extra-ospedaliera. Sono tutti d’accordo, c’è un consenso trasversale, ma il provvedimento pare si sia arenato alla conferenza stato-regioni per questioni secondarie. Approvare quella legge sarebbe un segnale di grande progresso civile e sociale».
In sostanza la legge darebbe il via alla formazione, cosicché tanti, anche non medici, potrebbero avere le nozioni sufficienti per l’emergenza e anche per l’uso del defibrillatore: sarebbe auspicabile che anche la scuola, dove spesso si fanno corsi su argomenti del tutto risibili, fornisse le nozioni di base del soccorso d’emergenza (e perché no anche la televisione).
La legge inoltre dovrebbe imporre di localizzare i defibrillatori in postazioni strategiche, particolarmente frequentate (come accade negli altri paesi civili), proprio come si fa per estintori o mezzi anti-incendio. «L’Italia è all’avanguardia nella protezione civile e nelle normative anti-incendio» osserva Castelli, «perché non diventarlo anche in questo? Se i tutor hanno ridotto del 25% i morti in autostrada significa che prevenire si può».
Prevenire le malattie cardiovascolari si può anche con le diagnosi. Può sembrare una spesa in più, invece è un investimento, che permette al sistema sanitario addirittura di risparmiare. Risparmiare in soldi. Ma soprattutto risparmiare vite umane (migliaia di vite!). La vita nostra e quella dei nostri figli. Salvare le loro esistenze, scongiurare drammi, disperazione, infelicità.
Forse è un argomento che merita qualche attenzione anche da parte dei giornali?
Antonio Socci , Libero 23/1/2011