Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 24/01/2011, 24 gennaio 2011
LE IMPRESE SOCIALIZZATE NELLA REPUBBLICA FASCISTA
Oramai, ogni giorno, tutti i politici dicono che accettare le condizioni imposte da Marchionne richiede di applicare come contrappeso la partecipazione agli utili e alla gestione dell’azienda da parte dei lavoratori. Nessun ha però l’onestà intellettuale di ricordare che tale proposta è stata un’idea di Benito Mussolini che la realizzò con la legge sulla socializzazione delle imprese nel 1944. Non le sembra abbastanza ipocrita?
Alessandro Mezzano
alessandro.mezzano@alice.it
Caro Mezzano, la socializzazione delle imprese fu uno dei punti della Carta di Verona, il documento approvato dal nuovo partito fascista durante il congresso che si aprì il 14 novembre 1943, due mesi dopo la creazione della Repubblica Sociale Italiana. Nelle intenzioni di coloro che vi parteciparono, il Congresso doveva essere un ritorno alle origini e dimostrare al mondo che il fascismo non aveva dimenticato la sua anima sociale. L’applicazione venne due mesi dopo con la legge del 12 gennaio 1944. Fu decisa la socializzazione di tutte le imprese con un capitale superiore a un milione e un numero di dipendenti superiore a cinquanta. Nelle imprese private «la partecipazione del personale sarebbe stata assicurata da un consiglio di gestione con funzioni consultive consistente in un tecnico, un impiegato e un operaio. Nelle imprese di Stato metà del consiglio di amministrazione sarebbe stato composto dal personale. In tutte le imprese, pubbliche e private, il profitto netto risultante dai bilanci, dopo la deduzione degli utili dei proprietari, dei fondi di riserva e dei dividendi degli azionisti, sarebbe stato diviso tra i dipendenti in proporzione ai loro salari» . La descrizione è tratta da un rapporto dell’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn a Berlino citato da Indro Montanelli nel volume della Storia d’Italia dedicato a «L’Italia della guerra civile» . Sembra che Rahn e i comandi tedeschi fossero piuttosto preoccupati. Temevano che questa riorganizzazione socialista dell’economia avrebbe messo a soqquadro l’intero sistema industriale italiano e pregiudicato le forniture destinate alla Germania. Ma Hitler, a quanto pare, reagì assai diversamente e rispose a Rahn, secondo Montanelli, che «il Duce può agire in questo campo come stima conveniente, anche se non è prevedibile che le misure avranno un gran successo» . Aveva ragione. I maggiori industriali, come Vittorio Valletta, finsero di accogliere la legge come la promessa di una migliore «convivenza fra capitale e lavoro» , ma sapevano che il vero problema del momento non era rappresentato dalle velleità socialiste di un regime agonizzante. Occorreva sopravvivere fino all’arrivo degli Alleati e soprattutto evitare che i tedeschi in fuga distruggessero gli impianti industriali. Ecco perché è molto difficile, caro Mezzano, considerare la legge fascista sulla socializzazione delle imprese come un utile precedente per affrontare il problema della produttività in un mondo globalizzato.
Sergio Romano