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 2011  gennaio 23 Domenica calendario

IL BUON MARESCIALLO NUOVA IMMAGINE DI RADETZKY

Che provincialismo! Negli Stati Uniti nessuno si sogna di proibire o criticare «Dixie» , l’inno più amato dai confederati del Sud. Il maresciallo Radetzky non è il mostro descritto dalla propaganda. Ma c’è sempre qualcuno che a ogni inizio d’anno si erge a vindice della storia e chiede che non venga più suonata la «marcia di Radetzky» di Johann Strauss, nel concerto di Capodanno di Vienna, specie nell’imminenza del 150 ° anniversario dell’Unità del nostro Paese. Se l’identità italiana è debole non è colpa di Radetzky. Nel 1848 Radetzky, alla scoppio delle Cinque Giornate, disponeva di un esercito di 16 mila uomini, pochi ma sufficienti a soffocare in poco tempo la rivolta se solo avesse fatto ricorso ai cannoni. Non lo fece perché non voleva passare per un novello Barbarossa; e preferì ritirarsi nel Quadrilatero. Un uomo ben diverso da come si compiace di dipingerlo la retorica nazionalista, quella stessa che cinquant’anni dopo, nel 1898, sempre a Milano, avrebbe trovato altri accenti per giustificare il massacro ordinato dal generale Bava Beccaris, nobile piemontese, che non aveva esitato, lui no, a prendere a cannonate il popolo indifeso. Radetzky appartiene alla storia, anche alla nostra. Parlava perfettamente italiano, amava Milano e volle morirvi nel 1858. Leonardo Sciascia diceva che Milano è diversa perché ha avuto Maria Teresa e il dominio austriaco. Radetzky era il leale difensore dell’impero, di gran lunga più tollerante e civile del nefasto regno d’Italia.
Romano Bracalini
romano.bracalini@fastwebnet.it
Caro Bracalini, la marcia di Radetzky è uno splendido esempio di quel genere artistico minore, ma festoso e avvincente, che fu sino alla Grande guerra la musica militare degli eserciti centro-europei. Anch’io non capisco perché dovremmo privarcene. Ho appena finito di leggere un bel libro di storia italiana e milanese in cui l’autore, Giorgio Ferrari, ricostruisce il ruolo del feldmaresciallo austriaco nella insurrezione del 1848 («Le cinque giornate di Radetzky» , ed. La Vita Felice). È un libro garbatamente revisionista da cui l’imperial-regio governatore generale del Lombardo Veneto emerge con tratti molto meno feroci di quelli che gli sono stati attribuiti dalla Vulgata risorgimentale. È un eccellente soldato (ha combattuto contro i francesi a Marengo, Austerlitz e Lipsia), è pronto a prendere decisioni spietate (le condanne all’impiccagione degli insorti del 1853), ma ama Milano, le partite a carte, la buona tavola, le osterie popolari e una stiratrice milanese, Giuditta Meregalli, che gli dette quattro figli e gli fu accanto sino alla morte. Non vorrei tuttavia che la voga revisionista facesse di Radetzky il salvatore di Milano dagli orrori della guerra. In una frettolosa lettera alla figlia Friederike, citata da Giorgio Ferrari, il maresciallo riassume gli avvenimenti milanesi con queste parole: «Ci siamo difesi sei giorni. Mancanza di viveri e di munizioni ci indussero a lasciare Milano combattendo. Concentriamo le nostre forze al Mincio e non appena riceveremo rinforzi marceremo in avanti» . Avrebbe potuto usare i cannoni per mettere la città in ginocchio? No, se non aveva munizioni sufficienti per un bombardamento decisivo. Aggiungo che Milano era una città imperiale e che l’imperial regio governo non aveva alcun interesse a distruggere la capitale di una regione assai più moderna e prospera, tanto per fare un esempio, della Slovacchia, della Galizia e del Tirolo. Un’ultima osservazione, caro Bracalini. Durante la repressione dei moti milanesi del 1898, il generale Bava Beccaris adottò una strategia miope, gretta e inutilmente crudele. Ma il fantasma che turbava il sonno dei militari in quegli anni era la Comune parigina del 1870, un evento rivoluzionario che fece tremare la Francia e fu represso nel sangue. Gli uomini politici e i generali sono sempre condizionati dall’ultima crisi e dall’ultima guerra.
Sergio Romano