Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 23/01/2011, 23 gennaio 2011
LE STOCK OPTION E LA RIFORMA TREMONTI
Due settimane fa questa rubrica è stata dedicata alle stock option di Sergio Marchionne. Numerosi lettori hanno manifestato consenso; altri dissentono sulla base, principalmente, di due considerazioni: a) perché prendersela con le stock option se queste incidono solo sul capitale e non sul costo del lavoro? In fondo, queste opzioni diluiscono i soci senza nulla togliere ai dipendenti; b) discutere i compensi del capo e il suo piano industriale porta acqua al mulino della Fiom. Sono entrambi argomenti che meritano risposta. Ecco la prima. Non ho scritto che le stock option tolgono qualcosa ai dipendenti, ma ho calcolato il rapporto tra la paga di Marchionne e il costo del lavoro medio pro capite della Fiat. Segnalare in modo verificabile l’indice di disuguaglianza nell’impresa è sempre interessante: non a caso, adesso, il Dodd-Frank Act ne fa obbligo alle società Usa. Lo è ancor più quando una parte chieda all’altra maggior fatica e questo concorra a darle un particolare profitto. Aggiungo che le stock option fanno parte del costo del lavoro in base ai principi contabili internazionali Ias-Ifrs con cui è redatto anche il bilancio Fiat. Chi sia interessato ai dettagli veda, fra i tanti, Alessandro Carletti e Alessio Iannucci, Ifrs 2: pagamenti basati su azioni, in «Guida alla contabilità e bilancio» , 26 giugno 2006. D’altra parte, per il fisco italiano le stock option sono una forma variabile di retribuzione del lavoro dipendente e come tale tassata; nel settore finanziario, quando eccedano il triplo della parte fissa dello stipendio, vi si applica un’aliquota aggiuntiva del 10%. Anni fa erano considerate un mero guadagno di capitale, tassabile al 12,5%. Poi, con il ministro Tremonti, si è preso atto del carattere mistificatorio di quella regola. E l’aliquota aggiuntiva segnala che la disuguaglianza crescente preoccupa anche il centrodestra. Seconda risposta. I giornali di informazione come il Corriere hanno le loro idee, ma non gridano né nascondono le notizie o le analisi, nemmeno quando possano offrire argomenti a soggetti di cui non condividono le opinioni. Evitare o rinviare post mortem le questioni scomode per la propria cerchia è tipico dei giornali di partito o di area, seguaci più o meno sofisticati della Pravda. Certo, può capitare il momento in cui dare notizie apre problemi di coscienza drammatici: quando, per esempio, la famiglia di un sequestrato chiede il silenzio stampa. E tuttavia la Reuters resisteva alla censura militare inglese anche durante la guerra. Ora, in democrazia, i conflitti sindacali sono fisiologici e non esigono né l’elmetto né l’autocensura. La Fiom sbaglia a definire attentato alla Costituzione un accordo oneroso ma figlio dei tempi. E però quando chiede lumi sul piano Fabbrica Italia avanza la stessa richiesta delle banche. Che da Marchionne hanno avuto la stessa, elusiva risposta: non tollerabile se venisse dal signor Rossi, tollerata invece in questo caso, forse per fiducia nel risanatore della Fiat o forse per il timore di quanto potrebbe accadere nel gruppo di Torino e nell’indotto negando i 4 miliardi di fidi richiesti.
Massimo Mucchetti