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 2011  gennaio 20 Giovedì calendario

IL SORPASSO DI PECHINO PREVISTO PER IL 2019

IL DEBITO americano. Il tasso di cambio tra dollaro e yuan. L’attivo di parte corrente cinese. Sono questi i tre punti dolenti del rapporto tra le due maggiori potenze mondiali. La visita del presidente cinese Hu Jintao a Washington è stata preceduta da un’intervista al Wall Street Journal in cui il leader dello Stato e del Partito comunista ha annunciato con tagliente durezza che sistema monetario mondiale dominato dal dollaro «appartiene al passato».
Vediamo perché, cominciando dal debito Usa. Pochi giorni fa Moody’s e Standard&Poor’s hanno ammonito che il debito federale Usa può non solo perdere molto presto la sua “tripla a”, ma avvitarsi verso una prospettiva di default. Non è un timore tanto per dire. Il primo consigliere economico del presidente Obama, Austan Golsbee, ha rivolto al Congresso un’accorata implorazione ad alzare il più pesto possibile il tetto del debito pubblico federale Usa oltre la soglia attuale, che è a 14.300 miliardi di dollari, visto che il debito corrente è già oltre quota 13.900, e in pochi mesi la situazione potrebbe evolvere non verso il default sostanziale, ma il default tecnico secondo le leggi contabili degli Usa. Il portavoce della Camera, il repubblicano John Boehner, non è affatto sicuro di riuscire a convincere i suoi colleghi di partito. E il 70% dei cittadini americani, negli ultimi sondaggi, si dichiara favorevole al default tecnico. E’ un giudizio che la dice lunga su che tipo di contribuenti siano gli americani: di fronte a politici che accrescono debito e deficit pubblico, gli americani preferiscono fermarla anche a costo di un crac che fermi l’orologio del debito, e addossi ai politici la chiara responsabilità del disastro.
Di default del debito americano ne sono avvenuti nel 1790; nel 1933; nonché nella crisi del 1841-42 fallirono ben 9 Stati dell’Unione; e in quella del 1873-74 altri 10 (motivo per il quale molti Stati hanno meccanismi automatici frena-debito che tuttavia non evitano esplosioni come quella attuale della California, per cui il Tesoro nella legislazione americana non ha obbligo di ripianare i debiti locali). Il debito pubblico americano era di 425 miliardi di dollari nel 1970, meno del 40% del Pil di allora. Ai 14 mila miliardi di dollari federali attuali vanno per correttezza e completezza aggiunti i circa 7mila miliardi di debiti pubblici statali, delle Contee e delle municipalità americane attualmente in essere. Percò il debito pubblico statunitense è in realtà nell’ordine del 130% del PIL. Stiamo parlando di un aggregato sul Pil ben maggiore di quello della Grecia, e anche se naturalmente la forza dell’economia americana è incommensurabilmente superiore, la Grecia ha dovuto avviare un piano severissimo di rientro, l’America non ci pensa nemmeno. Il piccolo problema è che è la Cina, a comprare e reggere il debito americano.
Il cambio. Poiché è il maggior creditore americano, la Cina ritiene che Obama dovrebbe piantarla nel chiedere che lo yuan rivaluti sul dollaro del 20%, per ridurre il vantaggio dell’export cinese e far diminuire il deficit della bilancia dei pagamenti americana. La monera cinese si è apprezzata sul dollaro solo del 3,6% nel 2010, e quest’anno al massimo si raggiungerà un altro 5%. ma è la Cina ad avere il coltello dalla parte del manico. Immaginando che la Cina continui a crescere non del 10% annuo ma “solo” del 7,5%,e che gli Usa crescano continuativamente almeno del 2,5% il sorpasso del Pil cinese su quello americano intorno a quota 20mila miliardi di dollari di dollari avverrà nel 2019. E se anche gli Usa crescessero di qui ad allora del 5%, avverrebbe comunque nel 2022. Per questo il talentuoso storico britannico dell’economia trapiantato ad Harvard, Niall Ferguson, parla ormai di “declino inevitabile della potenza americana”. Ed è lo stesso titolo di un saggio a firma di Gideon Rachman sull’ultimo numero di Foreign Policy.
Il vantaggio cinese. L’attivo di parte corrente della Cina è passato dall’11% del Pil nel 2007 al 5,5% nel 2010, ma sta già risalendo. I cinesi replicano a Usa ed Europa che il cambio della valuta non ha un grande effetto, perché sono componenti strutturali a determinarlo. In Europa siamo abituati a credere che sia il basso costo del lavoro. Ma la componente maggiore è l’altissimo tasso di risparmio, che denota la persistente difficoltà a passare da un’economia trainata dall’export a una più bilanciata, con forti consumi interni. Dal 2007 il tasso di risparmio è salito oltre il 505 del reddito disponibile, ma continua a salire. Tra le famiglie dei centri urbani, che assommano ai due terzi del reddito nazionale, è salito dal 18% al 30% in 7 anni. La spiegazione sta nella rapida crescita dei prezzi immobiliari, e nella riforma previdenziale del 1997 che ha abbattuto dal 75% al 60% il tasso di sostituzione tra pensioni e ultimi redditi prima del pensionamento. Gli americani vorrebbero che i cinesi consumassero di più. Ma in realtà tutto questo eccesso di risparmio va preservato anche perché, se la Cina dovesse andare incontro a una crisi bancaria, sarebbero guai per tutti. A cominciare dagli americani indebitati.