Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 23/01/2011, 23 gennaio 2011
LE RELAZIONI PERICOLOSE
Un senatore in carica finito in carcere dopo la condanna definitiva per complicità con la mafia è un fatto clamoroso quanto inedito, che va oltre il destino del singolo recluso. E’ il fotogramma finale di un lungo film su un certo modo di fare politica.
Prima di tutto in Sicilia, ma non solo. Ed è l’ultimo capitolo di una vicenda che ha messo a confronto due diversi metodi per affrontare i rapporti tra la mafia e la politica nelle aule di giustizia. Con molti chiaroscuri, in entrambi i campi. Quello appena concluso contro Salvatore Cuffaro è il «processo politico» che più ha caratterizzato gli ultimi dieci anni dell’antimafia giudiziaria, segnato da forti contrasti fra accusa e difesa (abbastanza naturali) e al tempo stesso all’interno della magistratura (meno naturali). Prima c’erano stati i processi al senatore Andreotti — terminato con l’ambiguo verdetto che sancì la prescrizione del reato commesso fino al 1980 e l’assoluzione per quello contestato in data successiva —, a un paio di ex alti funzionari di polizia giudicati colpevoli, e alcuni conclusi con la dichiarazione finale d’innocenza, a volte dopo alterne sentenze. Era un’altra stagione dell’antimafia, quella degli anni Novanta, che innescò anche il giudizio contro il senatore del Pdl Marcello dell’Utri, non ancora concluso dopo la condanna di primo grado parzialmente ridotta in appello. Ora c’è il timbro della Cassazione sulla pena inflitta a Cuffaro, simbolo del potere finito alla sbarra negli anni Duemila ma figlio di un mondo politico più antico. È famosa una sua performance di vent’anni fa, quando in una trasmissione tv condotta da Maurizio Costanzo e Michele Santoro, il futuro governatore della Sicilia si lanciò in un’appassionata difesa della classe dirigente democristiana nella propria regione, lasciando visibilmente interdetto il giudice Falcone, ospite in studio, al quale restavano pochi mesi di vita. In quell’apparizione televisiva Cuffaro intendeva proteggere soprattutto Calogero Mannino, all’epoca influente ministro successivamente accusato di concorso con la mafia», con tanto di carcerazione preventiva, assoluzione, condanna, annullamento della condanna e nuova assoluzione definitiva. Un’altalena evocata spesso da chi grida alla malagiustizia e all’antimafia di parte. Adesso il suo «delfino» ed erede politico Totò Cuffaro è rimasto impigliato in una sorte opposta, entrando in galera non da inquisito poi prosciolto ma col marchio della colpevolezza finale. Sempre per storie di boss e amici dei boss, lette però con occhiali differenti dai pubblici ministeri che l’hanno trascinato davanti ai giudici. L’ex governatore ha fatto un piacere a Cosa Nostra attraverso il decisivo sostegno fornito alla candidatura di un uomo giudicato vicino al capomafia del quartiere Brancaccio Giuseppe Guttadauro, e facendogli arrivare notizie riservate su indagini e intercettazioni in corso. Così ha stabilito la corte d’appello, nella sentenza confermata ieri dalla Cassazione nonostante il parere contrario della Procura generale, che ha ravvisato l’aggravante del favoreggiamento a Cosa nostra. Non un aiuto personale a qualche amico finito sotto inchiesta, dunque, ma direttamente al boss. Al termine di «una lunga partita a scacchi giocata dall’associato mafioso e da Cuffaro, ognuno consapevole del ruolo e degli interessi dell’altro» , hanno scritto i giudici. In primo grado gli stessi fatti erano stati interpretati in maniera diversa dal tribunale, fermatosi al favoreggiamento semplice, che oggi sarebbe prescritto. La corte d’appello invece ha deciso per l’aggravante, riproponendo l’ipotesi iniziale dell’accusa che a suo tempo provocò una profonda e mai sanata frattura nella Procura di Palermo: c’era chi voleva imputare a Cuffaro il concorso esterno in associazione mafiosa seguendo la linea processuale percorsa dall’ex procuratore Caselli, ma il neo-procuratore Grasso archiviò quel reato contestando il più sottile favoreggiamento aggravato. Scelta che s’è rivelata vincente, ora che il pendolo dei verdetti s’è fermato sul giudizio di condanna. Anche se non c’è la controprova di come sarebbe andata con l’altra accusa che nel frattempo, cambiata nuovamente la gestione della Procura, è piombata anch’essa su Cuffaro. Nel nuovo processo per concorso esterno gli episodi contestati sono sostanzialmente gli stessi, ma per i pm dimostrano la «specifica volontà dell’imputato di favorire non un singolo personaggio ma Cosa nostra nel suo complesso» . L’atteso giudizio di primo grado, a questo punto, sembra valere più per la disfida interna alla magistratura che per l’interessato. Restano i fatti, le relazioni pericolose tra un politico e un boss mafioso mediate da qualche personaggio di confine. «Fotografia di rara nitidezza e concretezza di quel particolare fenomeno chiamato intreccio mafia-politica-affari-coperture istituzionali» , le definirono i pm nel primo processo. Relazioni che Cuffaro considerava innocue e normali, mentre evidentemente non lo erano. Secondo tutti i giudici, anche quelli che avevano derubricato il reato. E’ una questione che dovrebbe riguardare tutta la politica e non solo Salvatore Cuffaro, primo parlamentare d’Italia finito dietro le sbarre dopo una condanna per mafia.
Giovanni Bianconi