STEFANO CARLI, la Repubblica Affari&finanza 24/1/2011, 24 gennaio 2011
TRA GOOGLE E GLI EDITORI ORA LA PARTITA È SUI RICAVI - «C’è
sempre la possibilità di migliorare il business». Con questa scarna battuta in chiusura del comunicato con cui dava notizia dell’accordo raggiunto con l’Antitrust italiana, Google è entrata nella sua personale fase 2.0 dei suoi rapporti con il resto del mercato. Da una visione monarchica e imperiale, per cui ovunque nel mondo devono valere le norme che il gigante di Mountain View si è dato da solo, a una fase, per così dire, più democratica e costituzionale. E sarà tutto da vedere come questa novità si coniugherà con l’altra, del passaggio di poteri da Eric Schmidt a Larry Page annunciata venerdì scorso. La notizia della chiusura del procedimento aperto dall’Authority guidata da Antonio Catricalà nell’estate 2009 su input della Fieg, la Federazione degli editori di giornali, non è rimasta in Italia: ha presto fatto il giro del mondo e a tutti è stato subito chiaro che in questo caso parlare di «chiusura» del procedimento è un’espressione solo letterale. Perché è proprio adesso che inizia la vera partita. E’ una partita che si giocherà a livello planetario e ha come obiettivo la riscrittura delle regole sul diritto d’autore. Il motivo è semplice: se il «contenuto è il re», come mai chi il contenuto lo crea e lo produce rischia di non essere lo stesso che ne ricava i maggiori vantaggi economici?
Conviene ripercorrere le tappe di questa vicenda, ricordando che altre indagini antitrust sono intanto in corso in Europa, dalla Spagna alla Francia, mentre la commissione Ue indaga sull’ipotesi di abuso di posizione dominante attuata da Google.
In sintesi i rilievi presentati dal presidente della Fieg Carlo Malinconico all’Antitrust riguardavano due punti: le News e Ad Sense. Nelle news il nodo era costituito dalla farraginosità del meccanismo attraverso il quale un editore poteva bloccare o modificare il contenuto di una notizia, ma soprattutto l’impossibilità per un editore di decidere l’esclusione da Google News senza con questo essere escluso anche dai risultati più generali del motore di ricerca. Nel caso di Ad Sense, il software che «distribuisce» sui siti (portali, blog, siti di news) annunci pubblicitari raccolti da Google sulla base della consonanza del prodotto o del servizio pubblicizzato con l’argomento che in quel momento sta interessando l’utente del sito. Questo ovviamente aumenta la possibilità che l’utente vada a collegarsi ai link proposti perché la sua attenzione è in quel momento polarizzata su un certo tema. Qui la contesa verteva sul fatto che i siti che hanno l’accordo con AdSense ricevono da Google una quota dell’investimento pubblicitario: d’altra parte sono loro che hanno la notizia che ha attratto gli utenti. Il problema è che Google, in forza della sua potenza di mercato, inviava soldi ai titolari dei siti ma senza rivelare quale percentuale dei ricavi totali rappresentasse. E nemmeno l’entità del traffico generato (il numero dei click). L’importanza della posta in gioco è forte: AdSense è la seconda fonte di ricavi per Google dopo la pubblicità sul motore di ricerca, e vale da sola sui 7 miliardi di dollari l’anno.
Dopo una prima fase di concessioni più limitate, l’estate scorsa da Mountain View è arrivata un’offerta più rispondente ai rilievi mossi dalla Fieg. Una serie di impegni che in sostanza si articola così
Sulle news: il motore delle news e quello delle ricerche sono separati e un editore può escludersi dalle prime senza restare escluso dalle seconde. In più ogni titolare di un contenuto che appaia su Google News potrà disporre di un software per correggere direttamente e soprattutto da solo eventuali errori. Prima bisognava comunicare la richiesta di variazione per via formale a Google e poi era Google che interveniva. Un po’ come chiedere una variazione catastale. E questa è una prima grande novità: gli editori potranno gestire da sé le loro notizie che appaiono su Google News.
Su Ad sense: Google si impegna a rendere nota ai titolari di siti e portali la percentuale e si impegna anche a comunicare preventivamente ogni variazione (prima Google si riservava il diritto di modificare e perfino interrompere il contratto a suo esclusivo arbitrio e il contratto stesso, in questa sua forma capestro, era «prendere o lasciare»). Ma anche qui c’è un ulteriore passo avanti: per la prima volta Google ammette il diritto dei titolari di siti e portali di conoscere l’entità del traffico generato: se un portale di news genera più traffico degli altri o anche solo rileva flussi di traffico crescente, può far valere queste informazioni in termini di maggiore forza contrattuale.
E c’è un’ultima novità. Google si impegna a far rilevare i click through, il traffico, insomma, da una entità terza da se stessa e dai siti interessati: potrà essere campo d’azione di operatori già specializzati, come Nielsen Net Rating o altri ancora.
Questi impegni hanno valore per tre anni, ma tre anni nell’èra del Web sono un’eternità. E non valgono solo in Italia ma in tutto il mondo perché Google si impegna a modificare in tal senso le sue politiche commerciali a livello globale.
Un risultato non da poco. Che magari non sposterà molto in termini economici, almeno sulle prime. Ma che dice che siamo davanti a una svolta. Google ha accettato di rendere più trasparenti i suoi meccanismi.
E’ un passaggio che si attendeva e di cui i primi segnali erano cominciati ad affiorare da diversi mesi. Intanto un rafforzamento della presenza sui diversi mercati nazionali, e questo riguarda soprattutto l’Europa. Una maggiore attenzione a trovare forme di sviluppo dei ricavi a livello locale. Sono tutte mosse che presuppongono una più attiva volontà di dialogo e un modello di business meno gestibile centralmente, da Mountain View o dalla base irlandese a cui finora hanno fatto capo tutti gli assets europei, anche dal punto di vista fiscale.
E’ un new deal all’insegna del dialogo e della mano tesa che non è stato interrotto nemmeno dalla sentenza favorevole incassata in settembre in Spagna in una vicenda di violazione di diritti d’autore intentata da Telecinco, la controllata spagnola di Mediaset, contro YouTube, il portale video di Google.
Già in quell’occasione, Telecinco si vide respingere il ricorso, ma le motivazioni non potevano certo tranquillizzare Google: la sostanza era una sottigliezza giuridica riguardante chi deve garantire la tutela del diritto d’autore. Ma non negava che tale diritto ci fosse e che ne fosse titolare, in quel caso, la tv.
E anche la decisione dell’Antitrust italiano va, e con ancora più decisione, in quella direzione.
E’ stato da qualcuno rilevato che Catricalà avrebbe scelto un impatto morbido mentre poteva aprire un’istruttoria, un’indagine vera e propria, convocando parti, chiedendo documenti. Ha invece preferito accettare gli impegni di Google. E’ stata una scelta di basso profilo? Forse no. Un’istruttoria avrebbe preso tempi maggiori, non avrebbe potuto imporre che una multa. Così si è invece aperta una breccia importante e in tempi brevi. E con conseguenze a livello planetario. E poi, in ogni caso, l’istruttoria si sarebbe andata ad infrangere su un punto ben preciso: la normativa sul diritto d’autore è insufficiente, così com’è, a regolare la materia dei contenuti digitali e dei motori di ricerca.
Per questo Catricalà ha accompagnato la pubblicazione della decisione e degli impegni presi da Google con una lettera aperta alle istituzioni: le Camere e il governo. Un invito a intervenire subito per colmare il vuoto legislativo: «Gli editori non sono messi nelle condizioni di condividere il valore ulteriore generato su internet dalla propria attività di produzione di informazione scrive il presidente dell’Antitrust nonostante questa rappresenti uno dei servizi di maggior interesse per gli utenti e dunque un elemento portante del Web».
Così facendo però Catricalà sembra dimenticare che la revisione del diritto d’autore ha già una sua sede: l’AgCom. L’Authority di Corrado Calabrò ha ricevuto la delega a elaborare le nuove norme con il decreto Romani dello scorso autunno. E si è messa subito al lavoro: ci sono state polemiche interne, anche forti, un primo documento poi ritirato, ma alla fine, prima di Natale, l’Authority ha varato delle nuove linee guida, messe in consultazione tra tutti i soggetti interessati (media, internet provider, internet company). Sono linee guida che non seguono il fallimentare indirizzo francese, la legge Hadopi, che tenta di arginare pirateria e violazione di diritti d’autore con interventi solo sugli utenti finali e grande </-> e di fatto vano </-> dispiego di forze di polizia, ma tenta di individuare un percorso condiviso. O almeno questa è la speranza. Perché la strada ormai è segnata: una guerra non conviene a nessuno e bisogna trattare. Sarà lunga ma sarà così. Se ne sono convinti anche a Mountain View.