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 2011  gennaio 24 Lunedì calendario

Da 42 anni attende il boia Tutta la vita condannato a morte - Qualsiasi sia la colpa com­messa da Iwao Hakamada- ma lui dice di essere innocente; e c’è il caso, piuttosto serio, che lo sia- i suoi giudici gliel’hanno già fatta scontare cento volte, impiccandolo a quella forca che gli venne garantita, per così dire, 42 anni fa

Da 42 anni attende il boia Tutta la vita condannato a morte - Qualsiasi sia la colpa com­messa da Iwao Hakamada- ma lui dice di essere innocente; e c’è il caso, piuttosto serio, che lo sia- i suoi giudici gliel’hanno già fatta scontare cento volte, impiccandolo a quella forca che gli venne garantita, per così dire, 42 anni fa. Da quel giorno, per come vanno le cose nel civi­lissimo e molto cerimonioso Giappone, Iwao Hakamada, ex pugile professionista, ha co­minciato a impazzire, trasalen­do a ogni passo che rimbomba nel corridoio del penitenziario in cui lo gettarono, all’alba del 1968. Una non vita con i pensie­ri­allagati dal terrore, dalla visio­ne orrorifica di un cappio e di una botola che si apre sotto i pie­di. «Sono loro, vengono per me…»; «In genere c’è solo una guardia;stamattina invece sen­to i passi di due persone… ecco­li, vengono a prendermi…». Tutto questo, nel caso dello sventurato Iwao Hakamada, oggi 74enne, per 30 giorni al me­se, 365 giorni l’anno, per anni 42. Già, perché nel civilissimo e molto cerimonioso Giappone, l’unica grande democrazia oc­cidentale oltre agli Stati Uniti in cui si pratica ancora la pena di morte, i condannati non sanno quando verranno uccisi. Nel braccio della morte, i reclusi vengono avvisati con una sola ora d’anticipo, al mattino. Non ci sono cerimonie d’addio con i parenti, non ci sono ultimi desi­deri, né ultime cene, né fesserie cinematografiche tipo ultima sigaretta. Se ci tieni, ti concedo­no una fermata di qualche mi­nuto davanti a un altare buddi­sta, prima di procedere verso la botola…Ristretti in celle singo­le, impediti di comunicare con altri reclusi, chiusi in una cella di cinque metri quadrati scarsi, a parte i 45 minuti d’«aria», cia­scuno è libero di torturarsi psi­cologicamente con calma. Con molta calma. Anche i familiari più stretti dei condannati, non­ché i loro avvocati, vengono in­formati dell’esecuzione a cose fatte. «È per evitare che il con­dannato provi turbamento», si giustificano i civilissimi e molto cerimoniosi funzionari del Mi­nistero della Giustizia. Quando, all’inizio degli anni Ottanta, impiccarono il suo vici­no di cella, Iwao Hakamada co­minciò a dare i numeri. «Io non ho sorelle», cominciò a dire al direttore del carcere rifiutando­si di vedere sua sorella Hideko, che non ha mai smesso, una volta al mese, di andare in pelle­grinaggio al carcere di Tokio. Ul­timamente gli han sentito escla­mare: «Sto costruendo un ca­stello ».«Mi rallegro.Magari rie­sci a finirlo in tempo…» gli ha mandato a dire Hideko, man­dandogli idealmente una carez­za. Iwao Hakamada è accusato di aver ucciso nel 1966 il diretto­re di una fabbrica di miso (un condimento a base di soia mol­to diffuso nella cucina orienta­le) la moglie e i due figli della coppia. E di aver poi dato alle fiamme l’azienda dove era sta­to commesso il quadruplice omicidio nel tentativo di cancel­lare le tracce. Hakamada sem­brava avere le carte in regola per fare il capro espiatorio. E la polizia si mise al lavoro. Saltò fuori un pantalone con alcune minuscole macchie di sangue e di benzina… Ma il fatto che non fosse della sua taglia non bastò a discolparlo. Duecento­se­ttantasette ore durò l’interro­gatorio dell’imputato: una me­dia di 10 ore al giorno, senza be­re, e senza potersi recare in ba­gno. Alla fine, quando gli disse­ro «firma», Iwao pensò che l’in­cubo fosse finito. Sbagliato. Quella che gli avevano dato da firmare era una confessione. «Come abbiano fatto i miei colleghi a farsi abbagliare da quelle sedicenti prove ancora non capisco», ha scritto recen­temente, in un suo libro, uno dei tre giudici che firmarono la condanna a morte. Norimichi Kumamoto, si chiama quest’ul­timo. Giudice oggi in pensione. «Il presidente della Corte disse: è colpevole. E tanto bastò. A me chiesero solo di redigere la sen­tenza. In calce, io scrissi che non ero d’accordo. Ma mi obbli­garono a firmare. Due contro uno, e fu la condanna a morte». Amnesty International ha chiesto la revisione del proces­so. Ma dicono che a Iwao Haka­mada la cosa non interessi. So­no 42 anni che aspetta quei pas­si nel corridoio. Non c’è nessu­no, in tutto il mondo, che si sia fatto tutto questo tempo in brac­cio della morte. Lui chiede solo che le guardie arrivino, e che l’incubo sia finito.