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 2011  gennaio 21 Venerdì calendario

HONG KONG DA QUI PARTE L’OFFENSIVA DELLO YUAN

Tsim Sha Tsui, dalle parti di Granville road. Qui gli hongkonghesi non si chiamano Robert Lau, Peter Fong o Emily Tsung. I nomi sono solo cinesi: prima il cognome e poi il nome. In mezzo a nuvole di vapore, il proprietario della rosticceria serve noodles dentro grandi tazze di brodo bollente e al momento del conto non fa una piega: prende i renminbi della Cina popolare lasciati sul tavolo e riporta il resto in renminbi

Non è un gran novità. Già dal 2004 le autorità di Hong Kong consentono ai turisti della Cina continentale di usare liberamente la loro valuta (yuan-renminbi) senza doverla cambiare in dollari della regione autonoma. Avevano annusato l’affare per tempo: l’anno scorso i visitatori sono stati 36 milioni (20% più del 2009) e due terzi venivano dalla Cina. Se il turismo è il 3% del Pil di Hong Kong, la Cina ne garantisce il 2%. Non sono più gli esploratori delle prime aperture, con pochi soldi in tasca come i pellegrini in visita a Roma. «Preferiscono spendere facendo shopping che dormendo nei grandi alberghi. Ma ormai portano denaro pesante», spiega Andrew Au, capo economista dell’amministrazione di Hong Kong. Pesante perché rispecchia la forza inarrestabile dell’economia cinese, che dopo il dato di ieri sulla crescita (10,3% nel 2010) ha superato il Giappone come seconda potenza mondiale.

La grande novità ora è che il ristoratore di Tsim Sha Tsui, dall’altra parte della baia di Hong Kong, ha aperto un conto in renminbi, emette assegni in renminbi, compra bond e investe in renminbi. Poco più di un anno fa non era consentito; un anno fa i depositi in valuta cinese nelle banche di Hong Kong erano di 60 miliardi; lo scorso novembre, erano arrivati a 279. È solo il 4,7% dei depositi nelle banche di Hong Kong, valutati attorno ai 7mila miliardi di dollari locali. Ma non è che un inizio. «È una crescita fenomenale, fatichiamo a tenere aggiornate le nostre statistiche», garantisce Adrian Li, viceamministratore delegato della Bank of West Asia. Tutte le 140 banche di Hong Kong, comprese le 40 straniere, hanno conti in valuta cinese. Un qualsiasi correntista non può cambiare più di 20mila renminbi: circa 2.352 dollari di Hong Kong o 301 americani. «Ma è l’unica vera restrizione rimasta che presto sarà eliminata, ne sono certo», dice ancora Adrian Li. Il ristoratore di Tsim Sha Tsui è comunque un commerciante: può raccogliere dalla cassa tutti i renminbi guadagnati e la mattina dopo depositarli sul suo conto. E gli costa meno che a un risparmiatore della Cina continentale dove il tasso d’interesse bancario sui depositi è il doppio che a Hong Kong.
La Cina ha scelto il territorio autonomo come laboratorio della piena convertibilità della sua valuta. E immediatamente, secondo la tradizione del luogo, renminbi è diventato il nome della nuova sfida, di un altro capitolo storico-economico di Hong Kong. Dall’inizio delle riforme denghiste negli anni 70, la Cina in tutte le sue espressioni è sempre stata la miniera della crescita dell’ex colonia. Ora il business è il renminbi e Hong Kong ci si butta con un finto entusiasmo da neofita, come se non avesse già sfruttato il suo ruolo di trading post e poi di avamposto occidentale nella Cina allora veramente rossa; come se non avesse cavalcato le riforme denghiste e sfruttato il costo della manodopera, trasferendo la sua industria manifatturiera oltre frontiera; diventando infine il pusher di Information Technology per una Cina bisognosa d’innovazione.
C’è qualcosa di molto hongkonghese, di spirito del luogo, se a Washington Obama e Hu alzano la voce sulle valute e qui c’è il dollaro americano al quale quello locale è allineato, e c’è il libero renminbi. «La nostra politica monetaria la stabilisce il dottor Bernanke», ricorda Lawrence Fok, amministratore del marketing della Borsa. Ma al tempo stesso Hong Kong è diventato il mercato più grande e regolato di renminbi fuori dalla Cina. «Siamo il più grande centro offshore di valuta cinese quanto Londra lo è per l’euro e il dollaro», constata il sottosegretario al Tesoro Jukia Leung.
Come tutti gli altri, questo nuovo business al quale Hong Kong si è attrezzato è a tempo determinato. Durerà fino a quando i cinesi non decideranno di rendere pienamente convertibile la loro valuta: non più di un decennio. «Quando accadrà, a Hong Kong sarà già accaduto e ci occuperemo di altro», è convinto Lawrence Fok. Nella sua Borsa arrivata a una capitalizzazione di 2mila e 700 miliardi di dollari Usa, quelli con la Cina sono il 60% degli scambi. E ora si pensa di contendere a Londra il ruolo di hub del mercato minerario mondiale.
In un luogo nato come trading post, poche cose come le cifre ne spiegano l’anima. I grafici che salgono verso l’alto, precipitano in un orrido e risalgono come un razzo vettore, sono la foto autentica di Hong Kong quanto le cartoline dal Peak. Il capo economista del governo Andrew Au li mostra e li commenta senza mostrare alcuna emozione. Nel 2008 il Pil saliva del 7%, nel 2009 anno della crisi precipitava a meno 7,7% e nel 2010 rimbalzava immediatamente a più 6,8%. Esportazione di beni: +7, -23%, +20,8% (un rimbalzo di quasi 44 punti). Esportazione di servizi: +15%, -4%, +14,5%. Così molte altre voci. La grande crisi del 2009 quaggiù è stata come uno starnuto.