Maria Luisa Agnese, Corriere della Sera 21/01/2011, 21 gennaio 2011
L’ANORESSIA E IL SENSO DI COLPA. IL SUICIDIO DELLA MAMMA DI ISABELLE
Chi non ricorda la fotografia di Isabelle Caro, 31 chili di ossa, sguardo inscheletrito, pelle e viso macchiati di nero, scattata da Oliviero Toscani, che nel 2007 ha campeggiato a lungo sui muri delle nostre città, diventando un dolente e provocatorio manifesto anti-anoressia? Dopo una lunga battaglia due mesi fa Isabelle è morta, piegata dal suo male, e ora sua madre, Marie, l’ha seguita: anche lei non ce l’ha fatta a sopportare quel peso e quel dolore e si è tolta la vita, schiacciata dal senso di colpa, come ha spiegato Christian Caro, compagno di una vita di Marie e padre adottivo di Isabelle. Non si dava pace, Marie, in quanto era stata lei a insistere con la figlia perché si facesse curare nell’ospedale Bishat a Parigi dove poi è morta: «Lei e Isabelle avevano da sempre un rapporto molto stretto, simbiotico» ha raccontato Christian a Paris Match. Simbiosi, senso di colpa o semplicemente dolore incontrollabile per dover ammettere l’impotente fallimento dell’amore più grande, quello materno: di sicuro il gesto di questa madre disperata potrebbe rilanciare suggestioni che si speravano superate, quelle che volevano far ricadere «le colpe» dei figli anoressici sulla famiglia, e prima di tutto sulle madri. Fior di trattati psico-sociali hanno inchiodato per anni specialmente loro, quasi tralasciando i padri, proprio perché trattandosi di disturbi legati al cibo era fin troppo facile chiamare in causa per prime le donne, da sempre nutrici e vestali dell’alimentazione. Anche Isabelle Caro, nel libro dal titolo suggestivo «La ragazza che non voleva crescere» (Cairo editore), che aveva scritto per continuare la sua campagna iniziata con le foto per il marchio No-l-ita, raccontava il suo calvario di figlia di padre assente (suo papà naturale era un musicista che ha visto solo fuggevolmente) e di madre iperprotettiva e a caccia di una figlia ideale che la copriva con due sciarpe, che la isolava dagli amichetti, che la voleva esile e bella, inseguendo il canone estetico del padre fuggitivo. E a tutto questo Isabelle, partendo da un forte senso di inadeguatezza e di estraneità al proprio corpo, si era arresa per amore, e proprio «per renderla felice» , aveva cercato per tutta la vita di costruire un falso sé che corrispondesse alle aspettative. Tutto come da cliché psicosociale, confermato ancora di recente da Lucio Della Seta, analista junghiano e autore di «Debellare il senso di colpa» , che ha sottolineato le responsabilità di una madre incapace di empatia, affetta da cecità cognitiva congenita, che tende a sopraffare la figlia. In realtà l’anoressia è disturbo molto più complesso e non riconducibile «a un unico vertice di osservazione» come avverte Giovanni Giusto, psichiatra e presidente di Fenascop, Federazione nazionale strutture comunitarie psicosocioterapeutiche: «Tutto ciò, la suggestione di madri vischiose e padri assenti, può essere vero, ma non spiega il grande disagio del paziente e un disturbo mentale grave come l’anoressia che esprime attraverso il fisico una profonda sofferenza psichica, e dove ci vuole una predisposizione perché evolva in senso drammatico» . Insomma una malattia quasi genetica (circa dieci casi su centomila persone in un anno), che nel 95 per cento dei casi colpisce le donne e che può essere trattata con terapie integrate, che agiscono su tre piani, psicologico, relazionale e farmacologico, in centri specializzati. Dove si può recuperare (nel 70 per cento dei casi come conferma Giusto) un rapporto con il corpo non più patologico. Anche Isabelle avrebbe voluto uscirne, nel libro scriveva che alla fine aveva perdonato sua madre, come è giusto fare per crescere, e concludeva: «Ora vorrei una famiglia, dei bambini... Vorrei vivere» . Ma per lei ormai era troppo tardi, per tutto.
Maria Luisa Agnese