Edoardo Camurri, Vanity n.3 26/1/2010, 26 gennaio 2010
MAO. JAZZ, BLUFF
Suo padre fu un carabiniere abruzzese, sua madre una commerciante istriana specializzata poi nella vendita di abiti da sposa. Lui si chiama Sergio Marchionne, ma oggi, a ben vedere, non si è ancora capito chi sia. In un’altra vita Marchionne fu probabilmente una particella subatomica, un bosone o una cosa del genere, abituata a strani fenomeni di ubiquità e di teletrasporto. In questa vita è invece un manager potentissimo, l’uomo che ha salvato l’insalvabile, la Fiat.
Della particella subatomica mantiene alcune caratteristiche: per l’appunto l’ubiquità, il teletrasporto e una certa imprevedibilità. «Non sono ancora riuscito a farmene un’idea», confida a Vanity Fair un manager che lavora con lui a Torino (d’ora in poi lo chiameremo XX), «in genere le persone dopo qualche tempo le capisco, con lui non è ancora successo».
In Italia non si parla d’altro e ciascuno, a turno, si è innamorato di lui. Per come sta rivoluzionando i rapporti con i sindacati e con Confindustria, ora ne va pazza la destra liberale, ma fino a qualche anno fa, luglio 2006, l’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti diceva che bisognava puntare su di lui in quanto «Borghese buono» e il segretario di Rifondazione Comunista Franco Giordano, nel 2007, arrivava a dire cose che forse riservava solo al cuore di Fidel Castro: «La strada è quella di Marchionne». Il problema è che Marchionne innamora, ma non s’innamora. «Avrà speso una fortuna in mazzi di fiori mandati alle mogli dei suoi collaboratori per farsi perdonare per aver rubato i loro mariti durante i fine settimana e per nottate intere spese a lavorare come disperati», racconta Salvatore Tropea di Repubblica, uno dei conoscitori più autorevoli del mondo Fiat. Le notti di Marchionne assomigliano a quelle che cantava Sergio Endrigo: sono notti bianche. «In Fiat», ci spiega sempre XX, «circola la leggenda che dorma solo quattro ore a notte e che il resto del tempo, le rare volte che non lavora, lo trascorra a giocare a poker dove, se per caso ti capita di fare una partita con lui, pare che convenga perdere. In moltissimi hanno il terrore di Marchionne. Quando passa per i corridoi di Mirafiori, tutti si nascondono, come topini al passaggio del gatto; ci sono collaboratori che preferiscono omettere resoconti sgradevoli nei loro rapporti per il timore della sua reazione; è un atteggiamento che potrebbe avere conseguenze negative per l’azienda».
Si ha paura di ciò che non si conosce e Marchionne, come ogni particella subatomica, preferisce nascondersi. Vive appartato in un attico di Torino, in corso Vittorio Emanuele, in un punto dove si può ammirare il Padre della Patria, in piedi in cima al suo monumento al centro dell’incrocio stradale con corso Galileo Ferraris, in una posizione eretta che i vecchi torinesi definiscono quella del «Piscia sul mondo». È un appartamento moderno, con i bagni bianchi e le maniglie dorate, dotato di un impianto stereo iper-tecnologico (una sua fissa); Marchionne vi ascolta la sua musica: Paolo Conte, il già ricordato Sergio Endrigo, Roberto Vecchioni, Maria Callas, il Te Deum di Mozart, molto jazz. Da ragazzo, quando viveva ancora in Canada (con la famiglia si era trasferito a Toronto all’età di 14 anni), ammirava Fabrizio De André e un poco, tanto per passare dalla musica alla politica, si era appassionato alla causa dei maoisti (forse grazie all’amatissima sorella Luciana, studiosa di letteratura italiana purtroppo morta giovane di un cancro e che Marchionne reputa una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto, come ricorda Marco Ferrante nel suo indispensabile volume Marchionne. L’uomo che comprò la Chrysler, Mondadori). Fece lo sportellista in banca, si laureò in Filosofia, poi in Economia e in Legge e, dopo il momento maoista, divenne un sostenitore del capitalismo americano, prefigurando così una biografia di future contraddizioni; non a caso amava ripetere il famoso detto del filosofo Bertrand Russell: un individuo sensato da giovane è socialista e da adulto è conservatore.
Sergio Marchionne è un iperattivo. Colleziona successi aziendali uno dietro l’altro (inizia la sua attività in Canada come commercialista e come avvocato fino a scalare e a risanare società come la svizzera Algroup, che si occupa di alluminio, o la Sgs, Société générale de surveillance, leader mondiale nei servizi di certificazione), con la stessa velocità con cui colleziona multe prese per eccesso di velocità con la sua Ferrari; si circonda del fumo di una Marlboro rossa sempre accesa (siede nel consiglio d’amministrazione della Philip Morris) e il modo più semplice per incontrarlo è per aria, dentro un aereo destinazione Detroit.
Con la moglie Orlandina, canadese di origine italiana, si sta separando; i figli si chiamano Alessio Giacomo, 20 anni, studente di Economia in Canada, e Jonathan Tyler, 16 anni, liceale svizzero: secondo alcune voci non riesce a vederli se non poche volte all’anno, e con poche alcuni intendono due, altri tre volte al massimo. Ma forse esagerano per difetto. Dicono che faccia una vita tremenda (anche se guadagna, tra compenso, opzioni e titoli gratuiti circa 38 milioni di euro all’anno), ma probabilmente è l’unico tipo di vita che gli piace. (Ricordava Jack London: «La parola definitiva è: mi piace. È alla base della filosofia ed è inseparabile dal nocciolo dell’esistenza. Quando la filosofia ha brontolato pedantemente per un mese, per mostrare all’individuo quello che deve fare, l’individuo a un tratto dice: “Mi piace”, fa qualcos’altro e la filosofia se ne va a spasso. Perché così gli piace»). Ecco, così è Marchionne. «Usa un linguaggio parecchio colorito, poi è un accentratore, vuole far tutto lui, è il dirigente unico», racconta ancora XX, «ma negli Stati Uniti so che è un altro, i colleghi americani lo chiamano, com’è loro abitudine, col nome, Sergio; loro mi parlano di una persona che in Italia non conosco». Un suo compagno di partite a carte, che ci fa capire di non avere troppi problemi reverenziali («Marchionne a scopone non è tanto allenato»), il vice sindaco di Torino Tom Dealessandri, spiega: «Marchionne ragiona in inglese e traduce in italiano. Il suo modo di pensare è quello anglosassone». Lo stesso ci ripete Tropea: «Ce lo siamo detti l’estate scorsa a Detroit, non si può confondere Toronto con Torino, sono due posti diversi».
Marchionne l’americano. In questa sua estraneità al mondo italiano risiede forse il suo elemento di maggior fascino e di eccezione. Come ricorda Ferrante nel suo libro, «Marchionne ha rimesso ordine nell’azienda anche grazie al suo sradicamento. Non aveva amici da proteggere, vecchie relazioni da riannodare, non aveva lontani parenti o conoscenti da sistemare, o a cui procurare un piccolo privilegio aziendale, una fornitura o un favore». Quando nel febbraio del 2005 Marchionne riuscì a liberare la Fiat dall’abbraccio di General Motors portando a casa 2 miliardi di dollari, abbraccio che avrebbe significato la vendita agli americani, lo fece grazie a due caratteristiche che da sempre lo contraddistinguono, l’esperienza pokerista e la cultura anglosassone. «Quelli di GM si aspettavano di vedere il solito inviato di Torino che parlottava l’inglese e invece si sono trovati davanti uno che parlava come loro e bluffava come loro», ricorda ancora Tropea.
Se Marchionne, spesso paragonato per lo stile di vita a un monaco (ma è un paragone che non regge: un monaco prega e lavora, Marchionne lavora e basta), dovesse avere una regola, forse sarebbe quella che non ci sono regole, anything goes, per dirla con un filosofo della scienza anarchico come Paul Feyerabend (uno che di meccanica quantistica, tra l’altro, s’intendeva). Poca burocrazia, irriverenza professionale, fantasia, gusto del rischio, spingersi al limite delle proprie potenzialità e tanto pragmatismo anti-ideologico (si è socialdemocratici quando serve e liberisti quando serve). Chi ha l’India facile potrebbe vedere in lui, ben nascoste sotto il maglioncino nero d’ordinanza (la cravatta l’avrebbe indossata solo in un paio d’occasioni, al Quirinale e in Vaticano), le qualità di Shiva, il dio distruttore e creatore, mentre in Italia tutti lo acclamano o lo hanno acclamato come il perennemente atteso salvatore della patria.
«Ora il problema è il futuro a medio termine», confida ancora XX. «Marchionne ha senza dubbio salvato la Fiat. Ma oggi, industrialmente, c’è poco o nulla in sviluppo, si vede in tutti i marchi del gruppo; ok, adesso ricicliamo le Chrysler, bene. E domani? Dopodomani?». Dopodomani ci sarà un altro baratro da affrontare. E se ne ha una comprensibile paura. Il destino di Mirafiori. La crisi economica. Marchionne lo sa e tutti lo stanno a guardare. Potrebbe sembrare inquietantemente poetico, ma ci sono dei versi (non proprio eccelsi) di un poeta inglese (Christopher Logue) che Marchionne fece circolare tra i suoi collaboratori in Fiat (li raccontò qualche tempo fa un testimone al Foglio e li riporta Ferrante nel suo libro), che forse potrebbero prefigurare qualcosa. Vale la pena trascriverli e lasciarli senza commento. Tipo lapide. «Avvicinatevi all’orlo del baratro disse / Avvicinatevi all’orlo del baratro / Si avvicinarono ed ebbero paura / Avvicinatevi all’orlo del baratro disse / Li spinse / E volarono».