Imma Vitelli, Vanity n. 3 26/1/2011, 26 gennaio 2011
VEDOVE E TIGRI
Il giorno in cui divenne vedova di tigre, Seba Midya ebbe un presentimento, come una leggera pena, che mise a tacere invocando la dea Bonbibi.
Il suo sposo, Romesh, era un contadino; poi venne il grande ciclone, a Sundarbans, e persero tutto, casa e raccolto, e per non morire di fame decise che sarebbe andato anche lui a pescare, come tutti, nella foresta.
«Mi disse: “Per un anno solo, te lo prometto”».
Seba, una signora esile di 27 anni, gli occhi tristi, il sari liso, aveva paura, e glielo disse: «Abbiamo due figli piccoli, tesoro, non andare». Ma lui andò lo stesso.
Romesh partì, la prima volta, il 23 settembre scorso, a mezzogiorno, assieme a due amici. S’inoltrarono tra le mangrovie tagliando le acque grigie del fiume Gange; si fermarono sulla riva del Dobaki a caccia di granchi. Passarono cinque giorni, che Seba trascorse al tempio, a pregare, e al molo, ad aspettare.
Conosceva bene i rischi che correva il suo uomo.
Tra le immense paludi del Golfo del Bengala, a un paio d’ore da Calcutta, è in atto da qualche tempo una formidabile regressione. Si consuma nell’arcipelago Sundarbans una trama già vissuta dai nostri antenati: nella foresta, contro le bestie, la lotta per la vita.
È una lotta impari in cui, questa l’impressione, la natura sta presentando all’uomo il conto delle sue brame.
Le tigri sul precipizio dell’estinzione; le tigri care a Vladimir Putin che a Mosca ha lanciato un appello assieme a Leonardo DiCaprio e Naomi Campbell; quelle stesse magnifiche tigri reali del Bengala hanno scatenato una tremenda vendetta: dopo essere state sterminate impunemente dai tempi dell’invenzione della polvere da sparo, adesso sterminano a loro volta, protette dalla legge.
«Si sono mangiate sei miei amici», dice il barcaiolo che mi porta alla meta, l’isola Satjelia, l’avamposto di questo massacro. Attraversiamo canali di acque limacciose e mangrovie infinite, imbrigliate, talvolta, dentro metalliche reti. Sono il tentativo della Guardia Forestale di sbarrare la strada alle fiere. Ce ne sono 279 nel Santuario di Sundarbans. «Le vedo ogni settimana nuotare verso i villaggi», dice il barcaiolo con un tono normale, come se stesse parlando di gatti a spasso nei nostri vicoli urbani.
Il quinto giorno Seba attese al molo fino a quando le acque si fecero scure e dal canale riemerse la prua di un’imbarcazione familiare. «Vidi subito che mio marito non c’era», dice Seba.
Chiese ai suoi amici: «Dov’è Romesh?».
«L’ha preso la tigre», rispose uno.
Le spiegarono poi, sconvolti, che si trovava sulla riva del fiume ad acchiappare granchi, quando nel buio udirono un ruggito terrificante e un urlo atroce: un momento dopo era lì a penzolare dalla bocca della tigre e il momento dopo non c’era più.
«Mi dissero che era inutile tornare di notte nella foresta, che la tigre aveva già mangiato il corpo di mio marito», dice Seba.
A Satjelia, una terra bassa e piatta, vicino al Parco nazionale, con 13 villaggi e 50 mila persone, si vive così, nel terrore. La bestia fa parte della vita quotidiana come l’acqua durante il monsone.
A Satjelia ci sono più di mille vedove di tigri, le chiamano così perché rappresentano un problema sociale, anche se non hanno un esercito o uno Stato cui chiedere i danni. Al pari delle vedove di guerra, ricevono, talvolta, un compenso dalle autorità del Parco, ma non sempre.
Ad Anpur, il villaggio più noto, sono 150 su 1.200 abitanti.
Puoi vederle camminare piano per i sentieri, tra le risaie, a testa bassa dentro i sari bianchi dell’eterno lutto.
Ne ho conosciute alcune, i volti tristi e scarni. Erano tutte mogli di pescatori; avevano tutte trascorso giorni di pena al molo in attesa del ritorno dei loro amori; avevano tutte offerto preghiere alla dea della tigre, Bonbibi, acceso candele, supplicato il cielo; si erano tutte arrese un giorno maledetto in cui la barca era tornata vuota.
«Eppure», mi dice Niranjan Raptan, «non è naturale che la tigre mangi gli uomini. È la natura a essere sottosopra».
Raptan, una massiccia guardia forestale, di 60 anni, la conosce bene: è da quando aveva cinque anni che sfida gli arbusti delle mangrovie. Tre volte ha recuperato i corpi di amici kaput, altre sette è stato testimone del loro sbranamento. Eppure tutto questo lo capisce, sa che il presente è frutto della scelleratezza del passato. È stato, in un’altra vita, un bracconiere, una forma anch’essa di guerra, in cui c’è chi vince e c’è chi perde.
«Siamo arrivati al punto in cui non c’è più cibo sufficiente nella foresta», dice. Non ci sono quasi più prede: cervi, daini e caprioli, falciati dai cacciatori di frodo. «E così la loro dieta è cambiata: ora mangiano cinghiali al 60 %, anatre al 20 %, pesci e uomini al 20 %, questo è tutto ciò che gli rimane».
Altro fattore, in questo snaturamento, è il picco delle temperature. L’innalzamento dei mari procede in India a un ritmo di 4,44 millimetri l’anno. Due delle isole Sundarbans si sono già inabissate e a Est, a sole tre ore di barca da qui, il Bangladesh è a rischio naufragio: si prevede possa scomparire nel giro di venti anni. Il Parco, che continua oltre confine, ha assistito all’esodo degli animali in fuga dalla devastazione della terra che si fa mare: le tigri erano meno della metà negli anni Settanta.
La salinità fa il resto: «Il fatto che siano costrette a bere acqua salata le innervosisce, le rende violente», dice Raptan.
In posti come Anpur questo produce incontri inaspettati, anche lontano dalla Riserva. Una settimana prima del nostro arrivo, se n’è palesata una, di notte. Si aggirava nel villaggio, inquieta. Ranjit, un omino stralunato, dal volto antico, è andato a fare i bisogni all’aria aperta e al ritorno ha trovato la bestia in camera della nipote. Ha urlato: «Aiuto!», e i vicini hanno acceso le fiaccole e impugnato le lance di bambù e chiamato la Guardia Forestale che è arrivata, ha lanciato una rete sopra la capanna e l’ha neutralizzata sparandole un sonnifero. «Siamo stati fortunati», dice.
L’inverno è la stagione più pericolosa: è il tempo degli accoppiamenti. Le femmine incinte sono più lente, non hanno l’agilità richiesta dalla caccia nella giungla, e allora ripiegano sugli umani. Studiano l’obiettivo per ore, e poiché sanno di puzzare di una puzza atavica, quando colpiscono lo fanno controvento, per non dare indizi del pericolo incombente. E, quando attaccano, lo fanno alle spalle, guidate da una misteriosa sapienza: la prima zampata è alla mano destra, la seconda, letale, alla nuca, per questo alcuni pescatori hanno preso a indossare maschere di legno.
Altra difesa non hanno. Da una ventina d’anni, in India, per l’omicidio di tigre la pena è l’ergastolo.
Potrebbero, i pescatori, smetterla di andare a pescare granchi nella Riserva. È lì che si consuma la mattanza, due casi al mese in media. Ma non c’è altro lavoro, ed è terribile il dilemma delle famiglie: «La scelta è tra la possibile perdita della mia vita e la morte certa per fame dei miei figli», dice Rathin Sarkar, un ragazzo di trent’anni, con moglie e due figli. È orfano di tigre. Ha perso il papà da cinque mesi. Ha aspettato una settimana, dopo i funerali senza corpo, è la norma che non resti traccia delle vittime, neppure un brandello da bruciare sulle pire degli addii indiani. Poi è tornato a guadagnarsi la vita nelle stesse tombali paludi.
«Non ha paura?», chiedo.
«Ho paura sì: le gambe mi tremano».
Cerca con lo sguardo la sua giovane sposa e s’intuisce il suo incubo, fare della sua giovane signora una bidhoba, una vedova come tutte le altre.
Incontro Rathin Sarkar sotto il tetto di paglia della famiglia. L’orizzonte è verde di palmizi, l’aria risuona del canto dei galli.
Si è sparsa la voce della visita dei bianchi; dalle capanne vicine arrivano una dopo l’altra, ombre silenziose, le vittime della grande piaga. C’è una signora anziana, bidhoba da venti anni, e una di venticinque, bidhoba da sei mesi.
Nessuna dice niente.
Rathin Sarkar è appena tornato con sette chili di granchi, con cui ha guadagnato 150 rupie (meno di tre euro).
«Ho visto una tigre, oggi», dice. «Ce ne sono così tante».
Sua moglie, una bella ragazza dentro un sari blu, lo guarda muta.
«Fino a pochi anni fa era normale, prenderle a fucilate. Poi con questa storia dell’estinzione hanno cambiato la legge, e adesso non si può più».
«Quelli del Parco», dice, «vengono ogni settimana e spiegano che è loro dovere preservare gli animali e la foresta, dicono che la zona è soggetta ai cicloni, e che solo se salvano le mangrovie salvano i loro villaggi, e solo se salvano le tigri salvano le mangrovie».
«E lei che ne pensa?», chiedo.
C’è un momento di silenzio.
«Io penso che tutti i giorni ce la dobbiamo vedere con le tigri, e che aumentano di giorno in giorno», dice il fratello di Rathin, Niren Sarkar.
«Entro cinque anni le tigri saranno qui e noi saremo tutti morti», dice Rathin.
Le donne, avvolte nei sari bianchi, fanno sì col capo. Poi, silenziose come erano arrivate, riprendono la via, in fila indiana, verso le loro capanne vuote.