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 2011  gennaio 20 Giovedì calendario

RISPETTO PER LIBERTÀ E TIBET" HU IN TRIONFO DA OBAMA MA SUI DIRITTI UMANI È SCONTRO - WASHINGTON - «I

diritti umani sono un valore universale, l´America deve parlare in loro difesa». Nel vertice tra i due leader più potenti del mondo, Barack Obama è generoso di attenzioni protocollari verso il suo omologo cinese, ma il suo tono s´indurisce sul tema più sensibile. «Sosteniamo la necessità del dialogo con il Dalai Lama, per tutelare l´identità culturale e religiosa del popolo tibetano»: il presidente americano lo dice in conferenza stampa guardando negli occhi Hu Jintao, l´imperatore di ghiaccio che riesce a non trasalire neanche quando gli viene nominato il "nemico numero uno", colui che Pechino ha costretto all´esilio dal 1959. «Libertà di parola, libertà di religione – lo incalza Obama – questi valori sono scritti anche nella vostra Costituzione. Rispettandoli, la Cina avrebbe ancora più prosperità e successo».
E´ il prezzo che Hu Jintao deve pagare per un onore con pochi precedenti: questa è solo la terza volta nella storia, che un presidente cinese ha diritto al cerimoniale della "visita di Stato" in pompa magna, con tanto di ricevimento di gala alla Casa Bianca, preceduto martedì sera da una cena privata, foto-ricordo con First Lady e bambine sul prato della Casa Bianca, il vicepresidente Joe Biden spedito alla base di Fort Andrews ad accogliere Hu fin sulla scaletta dell´aereo. George Bush gli aveva negato questo trattamento imperiale nel 2006, declassando la visita precedente di Hu ad un rango inferiore, proprio per l´imbarazzo sui diritti umani. Per Obama il disagio è perfino più forte: lui che ricevette il premio Nobel della pace nel 2009, condivide lo stesso riconoscimento con il dissidente cinese Liu Xiaobo che langue in un carcere. Condannato a 11 anni per una sola colpa: aver difeso gli stessi principi teorici che stanno scritti nella Costituzione della Repubblica Popolare.
Il terribile trattamento inflitto a Liu Xiaobo incombe sulla conferenza stampa alla Casa Bianca. Solo l´ospite cinese fa di tutto per ignorarlo. Riesce perfino a imporre la traduzione consecutiva – lentissima, inusuale in questi casi – che gli consente di prendere tempo, riflettere, divagare, di fronte a un Obama un po´ irritato un po´ sconcertato («ma come? non avevamo la traduzione simultanea?»). Hu ignora platealmente la domanda sui diritti umani fatta dal giornalista dell´Associated Press. Tocca aspettare un secondo giro, e il collega della Bloomberg deve insistere perché Hu risponda alla domanda precedente. «La Cina – ribatte il presidente – è sempre stata impegnata nella promozione dei diritti umani, come ci viene riconosciuto dal mondo intero. Ma questi diritti vanno visti alla luce delle circostanze nazionali. Siamo ancora un paese in via di sviluppo, con una popolazione immensa, con grandi sfide sociali ed economiche da affrontare. Possiamo fare di più per i diritti umani, e continueremo nei nostri sforzi per migliorare il tenore di vita, la democrazia e lo Stato di diritto». Nessuna risposta specifica sul Tibet, il tema pur sollevato singolarmente da Obama.
Non si può dire che Hu abbia sfoggiato uno sforzo di seduzione verso gli americani. Meticoloso nella cura della propria inespressività – secondo un detto celebre: la statua di cera del museo Tussaud che lo ritrae tradisce più emozioni di lui – Hu ha recitato sul tema dei diritti umani un copione collaudato, che mette in testa la lotta alla povertà e auto-promuove il regime cinese per i benefici dello sviluppo che hanno migliorato il tenore di vita di centinaia di milioni di persone. Obama gliene ha dato atto, del resto: «L´ascesa pacifica della Cina ha un evidente valore umanitario, per i cinesi e per il mondo intero». Ma la controversia sulle libertà spunta fuori ad ogni evento del summit. Il Congresso è ancora più battagliero di Obama. Alla vigilia dell´incontro che Hu Jintao avrà oggi con le due delegazioni parlamentari democratica e repubblicana, il clima è teso. Il presidente del Senato Harry Reid, la seconda autorità fra i democratici dopo Obama, definisce il leader cinese «un dittatore». Il presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, rifiuta l´invito alla cena di gala alla Casa Bianca. Una spia del disagio s´intrufola perfino nel mondo del business. Nella mega-delegazione di Vip del capitalismo americano che ha una sessione di lavoro con Hu, spiccano due assenze di rilevo: Google e Facebook. I due simboli dell´economia di Internet sono esclusi dal mercato cinese: Google ne è dovuta uscire dopo il braccio di ferro su spionaggio industriale e censura; Facebook non è mai stato autorizzato a operare da Pechino. L´altro grande assente nella tavola rotonda tra Hu e il mondo dell´economia sono i sindacati, che pure avrebbero qualcosa da dire sul problema delle delocalizzazioni. Sono lontani i tempi in cui il primo ambasciatore Usa in Cina, dopo il riallacciamento delle relazioni diplomatiche, fu proprio un sindacalista: inviato a Pechino da Jimmy Carter nel 1979, Leonard Woodcock era stato il leader della United Auto Workers, la confederazione dei metalmeccanici.