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 2011  gennaio 20 Giovedì calendario

CHI DECIDE SULLE INCHIESTE - A

forza di fiammeggianti proclami incrociati, sta passando l’idea che possa essere il Parlamento a togliere le inchieste alle Procure, e il ministro della Giustizia a stabilire se c’è o no un reato e chi sia competente ad accertarlo.
Nel giro di poche ore, e nel vortice del violentissimo scontro accesosi attorno all’inchiesta che addebita a Silvio Berlusconi le ipotesi di reato di concussione e prostituzione minorile, si sono udite parole difficilmente conciliabili con le responsabilità istituzionali di chi le ha pronunciate. Il presidente del Consiglio, nel motivare la propria indisponibilità a farsi interrogare dai pm milanesi per la loro asserita incompetenza funzionale e territoriale a inquisirlo (l’una individuata nel Tribunale dei ministri e l’altra negli uffici giudiziari di Monza), ha assicurato che «l’intervento del Parlamento toglierà alla Procura di Milano il caso e lo farà trasferire al Tribunale dei ministri» , dove «la cosa si concluderà in un attimo» : giusto in tempo per passare all’ «adeguata punizione» dei magistrati a suo avviso responsabili di «una procedura irrituale e violenta» . Persino il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che per definizione dovrebbe restare neutrale rispetto all’esercizio della giurisdizione sottoposta al vaglio dei vari gradi di giudizio previsti dalla legge, e che oltretutto è titolare invece di poteri disciplinari astrattamente esercitabili nella vicenda, in tv ha ritenuto di vestire alternativamente i panni del Guardasigilli e quelli dell’opinionista: «Secondo me, come ministro della Giustizia, e posso esprimere questo parere liberamente visto che la mia opinione non rileva nel merito, la Procura di Milano non è competente ma lo è il Tribunale dei ministri» . E, già che c’era, ha deciso anche che «la concussione peraltro non esiste» : un po’ come il 17 dicembre scorso aveva già stabilito, senza sentenze di Cassazione ma solo con il suo annuncio ufficiale di accertamenti ispettivi sui giudici romani che avevano disposto alcune scarcerazioni, che gli arrestati erano «soggetti responsabili di gravi atti di guerriglia urbana» . Nelle stesse ore i legali-parlamentari del premier indagato facevano il punto del «caso Ruby» con i 45 avvocati che siedono alla Camera come deputati del Pdl: compresi proprio alcuni dei componenti della Giunta per le autorizzazioni a procedere che a Montecitorio dovranno decidere se dare o meno il via libera alla perquisizione dell’ufficio dell’amministratore del «portafoglio» personale del presidente del Consiglio. Non che il premier non abbia diritto di contestare ciò che ritiene errato nell’operato dei giudici. Ma colpisce che scarti a priori il rimedio ordinario che la legge fornisce al cittadino comune che, anche senza essere presidente del Consiglio, ritenga che il reato addebitatogli dal pm sia di competenza di un giudice diverso: e cioè la procedura dell’articolo 54 quater, con l’illustrazione delle proprie ragioni giuridiche e la richiesta al procuratore generale presso la Corte d’Appello di trasmettere gli atti al pubblico ministero ritenuto competente. La via più semplice e ordinata, in grado di svelenire il clima e nel giro di soli 10 giorni dare al premier certezze sulla correttezza o meno dell’attuale stato del fascicolo, è paradossalmente la meno battuta. Come se si volesse a tutti i costi portare la politica a piedi uniti nel piatto della giustizia.
Luigi Ferrarella