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 2011  gennaio 20 Giovedì calendario

GIÀ NEL ’48 SI GIUDICAVA RIVEDIBILE LA COSTITUZIONE

Nel 1948, Vittorio Falzone, «primo redattore dei rendiconti parlamentari», curò la prima pubblicazione, per così dire divulgativa, del testo definitivo della Costituzione della Repubblica italiana, corredato da commenti e note agli articoli. Falzone, come afferma nella breve presentazione, seguì «per necessità di lavoro, non articolo per articolo, ma addirittura parola per parola, il formarsi, il modificarsi, il perfezionarsi della Costituzione». È quindi una fonte preziosa e sintetica per seguire il formarsi di alcune scelte che non da oggi sono oggetto di discussione, di contestazione o di difesa nel dibattito politico.

Il primo aspetto interessante è che, a pochi mesi dall’approvazione, avvenuta il 22 dicembre 1947, e prima della nascita dell’istituto del tabù assoluto nella nostra cultura civica e politica, Falzone disse che la nostra Carta non era perfetta, privilegiando addirittura la seconda parte, che definiva «quanto di più moderno esiste nel mondo in fatto di diritto costituzionale codificato», mentre sottolineò come la prima parte, quella che i custodi del sacro fuoco giudicano perfetta e immodificabile, sia viziata dal «tripartitismo», nel senso di accordo tripartito tra democristiani, comunisti e socialisti e sottolineò come «non poche delle disposizioni accusano l’esteriorità del compromesso», arrivando a dubitare che molte di quelle norme, nel cambiato contesto post elettorale del ’48, sarebbero nuovamente approvate nei medesimi termini se fossero sottoposte a nuova votazione. Ovviamente, anche la parte che nel 1947 era modernissima, è invecchiata e, nonostante tutti i propositi e le iniziative di riforma, al momento, l’unico punto che sembra vicino ad un completamento evolutivo è il federalismo, l’ostacolo o la meta, a scelta, che potranno determinare la sopravvivenza o la fine del governo. Gli schieramenti attuali li conosciamo e sappiamo anche che, quando Miglio e la Lega cominciarono a parlare della riforma federalista, suscitarono molte reazioni più o meno moderatamente avverse. Poi la riforma, parecchio zoppa, la fece in articulo mortis il centro sinistra, un attimo prima del ritorno al governo di Berlusconi, un po’ per scippare il tema alla Lega, molto per ribadire che solo da quella parte si salvaguardava l’unità del paese e si interpretava il concetto di federalismo in maniera costituzionalmente corretta. Evidentemente l’idea federativa ha bisogno di almeno tre tentativi per fare centro, visto che già nella costruzione dell’unità nazionale che stiamo celebrando era molto forte l’idea di una organizzazione di questo tipo, che fu messa in ombra dall’affermarsi dell’accentramento del potere statuale.

Il secondo tentativo avvenne proprio nell’assemblea costituente, con l’istituzione della regione come una sorta, dice Falzone, di quarto potere, quello dell’autonomia locale, «accanto ai tradizionali poteri dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario». A favore di questa scelta, si schieravano, con convinzione, i repubblicani, gli azionisti, i democristiani, una parte minoritaria di socialisti e liberali. Fieramente contrari comunisti, socialisti e la destra. Date le posizioni, la questione che, secondo l’autore del libretto, fu la più dibattuta dopo quella sulle attribuzioni della seconda Camera, pian piano «gocce e gocce di acqua fresca cadevano nella botte di vino dell’autonomia regionale», per cui, alla fine, ne venne fuori una istituzione pressoché completamente svuotata di quelle che avrebbero dovuto essere le sue attribuzioni. La riforma che sta per compiersi dovrebbe dare finalmente un senso coerente con le intenzioni originarie, ma il difficile punto di equilibrio è trovare un cambiamento che non sia troppo drastico e letale per quella forma di irresponsabilità amministrativa e di spesa che molte regioni, in specie meridionali, hanno praticato nei decenni.

Curioso poi è osservare come le varie parti politiche si siano riposizionate in merito, per cui gli eredi della Dc sono i più contrari alla riforma, che potrebbero votare solo con qualche compensazione sul versante delle politiche familiari, mentre gli eredi dei comunisti hanno avuto un atteggiamento morbido, che consente loro di rivendicare eventualmente il loro determinate contributo al cambiamento costituzionale. E può essere curioso ricordare anche come i comunisti furono anche i più tenaci avversari dell’istituzione della Corte Costituzionale, di cui sono ormai acclaratamente i più solerti paladini ad ogni stormir di fronde. Si potrebbe, dato il mutare degli stati d’animo, si potrebbe decidere di dare finalmente corso all’autonomia della Sicilia per tener conto della sua completa estraneità ad ogni riforma del pubblico impiego voluta o almeno ricercata dallo Stato centrale, della sua elegante ricetta contro la disoccupazione con assunzioni continue di decine di migliaia di cittadini negli enti locali, delle sue generose scelte di contribuire allo sviluppo di aziende locali senza le quali, come spiega il presidente come un Marchionne qualsiasi, si creerebbe disoccupazione. In Veneto i comuni fanno i referendum per unirsi alle regioni a statuto speciale. I siciliani potrebbero infine fare un referendum per diventare, come rivendicano da molto tempo, totalmente autonomi. Come ad ogni figliola amata che lascia la casa paterna, lo stato italiano potrebbe dare una dote di addio e la sua benedizione. Poi, per i bilanci futuri se la vedessero loro. Il conseguimento finale del federalismo farebbe già un buon passo avanti.