Franco Bechis, Libero 20/1/2011, 20 gennaio 2011
IL CAV FA IL DURO COI PM È LA STRATEGIA GIUSTA
Il tono è duro, la strategia di attacco. Non aveva altra strada, Silvio Berlusconi, davanti alla valanga di intercettazioni e racconti sulle serate spinte di Arcore che rischiava di sommergerlo. Non aveva altra strada e ha scelto la sola efficace: negare ogni fatto e attaccare i giudici sostenendo perfino che «devono essere puniti» per le irregolarità commesse. I legali del premier infatti punteranno il cuore della loro difesa su un argomento di procedura penale: l’incompetenza dei pm di Milano. Hanno molte frecce al loro arco, perché il primo reato ipotizzato da cui parte tutta l’inchiesta è quello della concussione. Si sarebbe concretizzato nella telefonata del premier al capo di gabinetto della questura di Milano per suggerire l’affidamento di Ruby, «che mi è stata segnalata come nipote del presidente egiziano Mubarak» alla consigliere regionale Nicole Minetti.
Se la concussione si origina in un abuso di Berlusconi del suo potere da presidente del Consiglio, il reato sarebbe ministeriale e la competenza del Tribunale dei ministri. Altrimenti la competenza deriva dal luogo in cui il reato è stato commesso. Berlusconi quella notte si trovava a Parigi. Il funzionario della Questura a Sesto San Giovanni, paese su cui è competente il tribunale di Monza. Nell’una e nell’altra ipotesi la procura di Milano avrebbe dovuto fermarsi, trasmettere gli atti fin lì raccolti a chi aveva competenza. Non essendo stato fatto, rischia di essere invalidata tutta l’attività istruttoria successiva: intercettazioni, pedinamenti, interrogatori sulle feste di Arcore.
Questo aspetto è problematico per la procura di Milano che ne è cosciente, tanto che ieri ha fatto filtrare l’ipotesi che la telefonata di Berlusconi alla questura fosse in qualità di amico e non nella veste di premier, cosa che farebbe cadere il reato di concussione (legato alla funzione di pubblico ufficiale). Ma è materia appunto di procedura, interessantissima per gli avvocati e non per l’opinione pubblica. Anche gli elettori di Berlusconi hanno diritto di sapere se il loro premier fosse più preso dalle curve del debito pubblico da raddrizzare o da quelle di un plotone di prostitute da accarezzare.
Fa differenza anche per gli elettori di centrodestra, e il presidente del Consiglio lo sa. Così ieri ha preso di petto l’argomento, e ha dato l’unica risposta possibile: tutto è falso. È una posizione sostenibile secondo i documenti finora letti: non c’è prova del contrario. Berlusconi ha tratto anche la sola conseguenza possibile da questa affermazione: se tutto è falso, quella della procura di Milano non è una inchiesta, ma un atto di guerra. In effetti dispiegare ingenti risorse e almeno 150 uomini per pedinare, intercettare, interrogare e perquisire chiunque si sia recato la sera a casa Berlusconi e perfino le persone successivamente entrate in contatto con questi commensali, non è tipico di un’inchiesta su un reato (600 bis comma 2) che prevede una pena compresa fra 6 mesi e 3 anni. Anche l’Fbi provò a incastrare Al Capone per un reato minore: bastarono però 10 agenti e un ufficiale del fisco. La sproporzione è evidente. E fa anche capire come nessun imputato in un paese libero possa presentarsi davanti a un tribunale di guerra: lì vige la legge marziale, si è già decisa la pena capitale.
Le parole dunque sono state forti, ma violento è il contrasto da entrambe le parti. Ed è evidente che questa vicenda non potrà mai avere come epilogo l’imputato che si presenta al suo giudice per chiarire, come sarebbe normale. Perché un atto di guerra torni nei sui binari di legittimità è necessario prima che tutti depongano le armi, e poi un disarmo bilaterale. Ormai quei destini sono uniti. Simul stabunt, simul cadent. Berlusconi e i suoi cacciatori insieme sono stati in piedi, e cadere possono solo insieme.