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 2011  gennaio 19 Mercoledì calendario

QUANTE BUGIE SU CAVOUR “FEDERALISTA”


Da tempo si cerca di accreditare la tesi secondo la quale Cavour avrebbe avuto in mente un progetto federalista e che questo suo obiettivo sarebbe stato frustrato da interventi esterni e dagli intrighi degli unitaristi più coriacei. Adombra questa tesi con autorevolezza anche Arrigo Petacco. Ne Il Regno del Nord (2009) racconta come il disegno di una Confederazione sarebbe stato reso impossibile dalla fuga in avanti di Garibaldi che avrebbe messo Cavour di fronte al fatto compiuto.
Questa interpretazione sembra piacere a molti federalisti, soprattutto dell’ultima ora, che vi vedono una sorta di legittimazione storica nel progetto di riforma che dovrebbe essere approvato dal Parlamento proprio nel bel mezzo delle celebrazioni del 150° dell’Unità. Più strano è che la cosa venga sposata acriticamente anche dalla Lega che infila un po’ frettolosamente Cavour nel suo album di famiglia.
La tesi di fare passare il Conte come un inossidabile e robusto federalista è un pochino acrobatica e contrasta con quanto scritto dai suoi più reputati biografi, dallo svizzero (e pertanto sensibile alle melodie federaliste) William De la Rive a Rosario Romeo. È ancora più esplicito Denis Mack Smith nel sostenere che fosse addirittura palesemente contrario all’idea di un ampio decentramento.
Certo il comportamento ambiguo di Cavour non aiuta a fare chiarezza. È sicuramente vero che a lui si debba la negoziazione e la stesura del solo concreto progetto dotato di “ufficialità”: quello uscito dagli incontri di Plombières del luglio 1858 e nel quale Parigi e Torino convenivano sul riassetto della penisola in un regno dell’Alta Italia sotto i Savoia, nella Toscana (allargata a Marche e Umbria) da dare a un principe francese, nel Regno delle Due Sicilie governato da un erede di Murat, e nello Stato della Chiesa, ridimensionato al Lazio, lasciato al Pontefice cui era conferita la presidenza onoraria della Confederazione.
È però altrettanto vero che il progetto, che aveva suscitato tanti entusiasmi e sulla base del quale era stata combattuta la guerra del 1859, sia stato completamente disatteso primo fra
STATISTA
Camillo Benso, Conte di Cavour (1810-1861), è stato uno dei principali protagonisti del Risorgimento
tutti proprio da Cavour. C’entra poco l’iniziativa meridionale di Garibaldi (peraltro pilotata proprio da Torino), giacché il progetto era già stato accantonato con l’occupazione e l’annessione della Toscana, che non faceva parte degli accordi. È stato sottolineato come in quel momento si sia passati dalla “fase” francese a quella inglese dell’Unità, da quella cioè che prevedeva (o che diceva di prevedere) un’architettura federale a quella rigidamente unitarista. Sono infatti stati gli inglesi che hanno energicamente difeso le annessioni piemontesi dalla reazione di gran parte degli Stati europei che chiedevano il ritorno di tutte le monarchie spodestate previsto dal trattato di Zurigo, l’allargamento del Piemonte alla sola Lombardia e la formazione di una Confederazione italiana.
Il federalismo non faceva parte delle idee del Conte se non nella misura in cui poteva servire ai suoi scopi. I suoi obiettivi primari erano altri: il controllo politico dello Stato (a costo di qualsiasi compromesso o “connubio”, o di annullare elezioni come nel 1853 di cui non gli garbavano i risultati), assecondare la politica espansionistica dei Savoia, la subordinazione ossequiosa ai disegni imperialisti inglesi e la politica liberista che ha portato indubbi vantaggi al Piemonte, ma anche ultimo ma non ultimo all’interesse economico suo personale e dei suoi sodali.
Che non avesse una vocazione federalista lo si è visto in parecchie occasioni, dal sistematico rifiuto di aderire a una unione doganale della penisola simile alla Zollverein tedesca all’annessione della Lombardia senza la convocazione di quell’Assemblea Costituente che era stata stabilita dal plebiscito del 1848, dall’annullamento radicale di tutte le antiche autonomie padane (Ducati e Legazioni) fino all’insofferenza nei confronti delle pur blande pulsioni autonomiste di Ricasoli in Toscana.
Si può credere che avesse in mente un sistema amministrati-
vo più simile a quello inglese delle contee che a quello centralista e prefettizio alla francese, ma non esiste alcuna sua testimonianza diretta davvero inoppugnabile e anche i cenni che ha fatto nei suoi interventi sono poco probanti vista la rapidità con cui cambiava idea e il cinismo con cui utilizzava tutto e tutti.
A questa visione blandamente decentratrice si sono ispirati Minghetti e Farini nella loro proposta di riassetto amministrativo dello Stato, quasi sicuramente concordata con Cavour, ma da questi mai palesemente sottoscritta per lasciarsi la possibilità di rinegoziare tutto. In ogni caso il progetto si affloscia con la sua morte. Qualcuno come Eugenio Fracassetti (Dossier Cavour, 2010) ha ipotizzato che la paura dei centralisti più dogmatici abbia anche potuto avere un ruolo nella prematura e poco “naturale” scomparsa del Conte. È indubbio che solo lui sarebbe stato in grado di governare uno Stato decentrato che in ogni altro caso si sarebbe rapidamente
e naturalmente disfatto. In questo senso, e solo in questo, si possono attribuire a Cavour idee decentratrici, ma non certo federaliste, in quanto per nessuna ragione avrebbe devoluto alla periferia anche solo una briciola di potere vero, che non fosse limitato a competenze amministrative.
Insomma, Cavour non era federalista, forse non era neppure centralista, era soprattutto cavouriano e metteva le sue indubbie capacità all’esclusivo servizio dell’affermazione di se stesso. Difficile stabilire quali fossero davvero i suoi ideali: non ha mai codificato le sue idee, non ha mai scritto libri come Mazzini. Cavour è il primo vero politico italiano, pronto a compromessi, slanci ideali, bassezze, tradimenti, prepotenze, pronto a tutto insomma, mutevole nelle opinioni e inaffidabile negli atteggiamenti. Usava con cinismo e spregiudicatezza ogni idea, federalismo compreso.
La sola cosa certa è che era un uomo colto e intelligente, che non aveva paura di niente, che era un chilometro avanti e al di sopra di tutti quelli che aveva attorno. Con gli attributi sì, unitarista forse, federalista neanche un po’.
È piuttosto significativo che questa questione venga tirata in ballo oggi, davanti a una riforma che di federalista ha solo il nome. Chi sostiene la legge cerca una legittimazione nobile nel Conte, chi la appoggia obtorto collo lo usa come una giustificazione. Anche chi la osteggia auspica un po’ capziosamente la stessa sorte del progetto di decentramento ottocentesco, abortito con la scomparsa del Conte perché era venuto meno l’uomo forte in grado di gestirlo scongiurando ogni deriva separatista. Allora, per paura delle autonomie, si era creato uno Stato centralista e prefettizio, che per le stesse ragioni potrebbe essere oggi drammaticamente confermato. Così tutti sembrano tirare per la giacchetta il Conte nell’eterno e irrisolto dilemma fra unità e libertà.