Franco Bechis, Libero 19/1/2011, 19 gennaio 2011
INCHIESTA ANOMALA E PIENA DI BUCHI
Ruby Rubacuori che avrebbe venduto il suo silenzio per 5 milioni di euro insegue per settimanedopo che lo scandalo è divenuto pubblicol’amministratore delle società di Silvio Berlusconi, Giuseppe Spinelli, implorando di chiedere al premier se lei può avere 5 mila euro perché si trova in difficoltà. Succede dopo la metà dello scorso mese di ottobre, quasi in contemporanea con la telefonata alla madre del suo ex fidanzato in cui Ruby millanta di avere ricevuto 5 milioni di euro per il suo silenzio. Per altro due giorni dopo la ragazza marocchina intercettata al telefono con altro interlocutore cambia la cifra: 6 milioni di euro. Eppure come sanno benissimo gli stessi investigatori, la ragazza è stata settimane a pietire quei 5 mila euro e non risulta le siano arrivati. C’è tutto ma anche il suo contrario nelle 389 pagine dei faldoni inviati in Parlamento dalla procura di Milano per il colpo del ko al presidente del Consiglio. L’offensiva mediatica è stata evidente, ma molte delle cose che si sono lette sui giornali ieri non corrispondono a piena verità. Uno dei racconti che svelerebbe di più l’ambiente a luci rosse di Arcore era ad esempio quello dell’ex prefetto di Napoli, Carlo Ferrigno, intercettato mentre parlava con alcuni amici. Peccato però che Ferrigno non sia mai stato ad Arcore. Tutto quel che riferisce ha appreso da una danzatrice del ventre che lui stesso in un colloquio con un amico ha definito “una puttanella” e con cui deve avere un rapporto assai stretto, visto che è stato l’ex prefetto a portarla da Lele Mora e a spingerla ad Arcore. E visto pure che la danzatrice del ventre chiama Ferrigno alle due del mattino per raccontargli tutti i particolari della serata che poi avrebbero scandalizzato il prefetto (così abbiamo letto ieri). Quindi uno dei più forti indizi si basa su quanto riferito ad amici fra il serio e il faceto da un non testimone che avrebbe appreso i fatti da “una puttanella” in una telefonata nel cuore della notte. Altro elemento che ieri sembrava una roccaforte: attraverso Spinelli Berlusconi avrebbe pagato le prestazioni sessuali delle ragazze intestando loro delle case, alcune delle quali nel condominio di via Olgettina a Milano Due. Le cronache di ieri riferivano secondo quanto raccontato da parlamentari di
opposizione che avevano letto gli atti in giunta che addirittura a Nicole Minetti sarebbero state intestate tre case. Alla procura sarebbe bastato assai poco per verificare: consultare il catasto. Né la Minetti, né il padre, né l’accomandita di famiglia costituita fra loro due nel 2009 per gestire eventi e spettacoli hanno un solo immobile intestato in Italia. Per lei come per tutte le ragazze si trattava invece della intestazione di contratti di affitto, non della proprietà degli immobili. E il problema spesso era solo burocratico o fiscale. Perché a lungo come si capisce dalle intercettazioni le ragazze beneficiarie discutono della grandezza degli appartamenti trovati dalla Minetti. Li vogliono piccoli, perché costano di meno. Di fronte a un canone di affitto di 2.400 euro al mese considerato da loro esorbitante, come è evidente da due telefonate intercettate a cui partecipa la stessa Minetti, si pensa di dividere l’appartamento fra tre ragazze, perché così “se lo possono permettere”.
Letta integrale perfino la testimonianza chiave di T.M., ex compagna di scuola della Minetti che viene ricevuta ad Arcore dallo stesso Berlusconi presentata come “miss due lauree”, è assai diversa dagli spizzichi e bocconi delle anticipazioni. A lei certo la serata non è piaciuta. Ma non è testimone di altro che di una cena con battute un po’ pesanti e di un dopo cena in una sorta di discoteca dove alcune ragazze si vestono come ballerine di Drive In e danzano in modo provocante anche vicino al premier. Poi la serata finisce e Berlusconi chiama anche T. M. nel suo studio per salutarla e ringraziarla. Lei dice che non si è divertita. Berlusconi la saluta sorridendo e le regala due Cd di Mariano Apicella. T. M. gira i tacchi e fa per andare. Il premier la ferma: «Non mi saluti
nemmeno?». Lei abbozza un saluto e va via. In auto scoprirà che fra i due cd c’era una busta bianca con dentro quattro biglietti da 500 euro. Così è avvenuto con tante ragazze che ricevono soldi anche se non si prostituiscono e anche se non partecipano alle danze della seconda parte della serata. I magistrati quasi tremano: questa testimonianza rischia di fare crollare il castello. Hanno tutte le telefonate intercettate a T. M., ma non bastano, anzi: sono prove a discarico. Così convocano in procura e torchiano tutti gli interlocutori di T.M. dei giorni successivi. Ma non ricavano nulla di utile.
Questo fatto però mostra bene lo spirito della inchiesta della procura di Milano: non si tratta di una indagine normale. È caccia grossa al nuovo cinghialone, effettuata con bazooka e con mezzi pesanti. L’indagine parte dalla famosa
mente banale: «Ci fu un unico e serio momento di frizione quando io, avendo ritenuto che fosse insufficiente la tesi elaborata da sua cognata, ne rinviai la laurea alla sessione successiva. Ilda, che allora non era molto rigorosa, si ritenne in diritto di farmi una reprimenda».
Come mai un magistrato di successo come Mele, per di più amico della Boccassini, ha espresso un giudizio così duro su di lei come quello riportato all’inizio? Semplice, perché un giorno si è trovato sulla barricata opposta rispetto a Ilda. Il 20 marzo del 1996, Mele vede il suo nome stampato su Repubblica, all’interno di un elenco di toghe “corrotte” da Cesare Previti. Il magistrato scoprì allora che Stefania Ariosto lo stava accusando di aver ricevuto da Previti dei regali. Tra questi, un quadro, che secondo la testimone Omega sarebbe stato venduto proprio da lei, in qualità di gallerista, a Marcello Dell’Utri e che Mele avrebbe esposto
telefonata di Berlusconi per fare liberare Ruby che era stata fermata dalla procura di Milano. Il pressing telefonico, quello che fa ipotizzare il reato di concussione, è nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostimi (negli atti dei pm più volte si sbaglia il suo nome). Quando riceve la telefonata Ostimi è a Sesto San Giovanni. L’eventuale reato quindi non è competenza della procura di Milano, ma di Monza. E secondo molti parlamentari semmai sarebbe competenza del tribunale dei ministri. La legge in questo caso imporrebbe ai pm di fermare l’indagine e trasmettere entro 15 giorni il materiale raccolto a chi è competente. Ma non avviene. Anzi, inizia una corsa contro il tempo settimana dopo settimana cercando di inchiodare Berlusconi. L’eventuale concussione si consuma tutta in una
in bella vista nel suo ufficio di procuratore della Repubblica. L’Ariosto aveva visto il quadro durante un’intervista a Mele andata in onda sulla Rai e non aveva dubbi: era proprio quello, ecco la prova della corruzione.
Del caso si occupava la Boccassini, rientrata a Milano dopo una parentesi in Sicilia (era stata allontanata dal pool anticrimine milanese e Borrelli in persona aveva detto di lei: «Individualismo, carica incontenibile di soggettivismo, indisponibilità al lavoro di gruppo, mancanza di freddezza, di controllo nervoso, di volontà di porre in comune risultati, riflessioni, intenzioni»). «Ella si occupò soltanto di saperne di più sul piano accusatorio», dice Mele nel libro, «con uno spirito non perfettamente collimante col dettato dell’art. 358, che impone al Pm di ricercare anche le prove a favore dell’indagato: allora per giunta non lo ero neppure». La Ariosto tirò in ballo Mele anche in altre dichiarazioni, ma – come notte sulla linea palazzo Chigi-Questura-procura dei minori. Non c’è bisogno di grandi indagini. Uomini, mezzi, intercettazioni, pedinamenti, sequestri, indagini bancarie e postali vengono messe in campo quindi per l’altro presunto reato: avere fatto sesso con una ragazza fra i 14 e i 18 anni pagando la prestazione. Mesi di indagini, risorse ingenti per pagarle. Tutto per un reato che prevede una pena compresa fra 6 mesi e tre anni. La procura di Milano cerca di inchiodare Berlusconi come fece l’Fbi con Al Capone. Ma i mezzi messi in campo sono dieci volte superiori. Che si dovrebbe fare davanti a ipotesi di reato che prevedono 30 anni di pena edittale o l’ergastolo? In campo mille uomini e milioni di intercettazioni? È nella risposta a questa domanda che si trova la vera chiave di questa vicenda.