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 2011  gennaio 18 Martedì calendario

IL GRANDE VECCHIO ORGOGLIOSO DEI SUOI FALLIMENTI

Varcata la soglia benemerita degli 80 anni, un qualsiasi scrittore, almeno fra i teutonici, se non l’ha già fatto, comincia a pensare al riordino delle proprie opere (Günter Grass, che non ha certo problemi di autostima, ha iniziato a farlo già a 60 anni...), puntando magari a nuove, raffinate riedizioni di quelle più riuscite. Non è così per Hans Magnus Enzensberger, che, oltre a non volerci neppure pensare, ha appena pubblicato in contemporanea due nuovi libri, a testimonianza ancora una volta della sua imprevedibilità e genialità di saggista, poeta, editore, traduttore e appassionato di matematica.
Il primo (Album, Suhrkamp) è una specie di collage di suoi aforismi, testi altrui, fotografie e fumetti senza alcun ordine apparente; una raccolta nel complesso fin troppo casuale e alla fine poco efficace. Molto più interessante l’altro, che è un vero e per più versi attraente libro (I miei flop più cari, Suhrkamp) dove traccia la propria autobiografia elencando e raccontando i propri progetti mai realizzati o, peggio ancora, miseramente falliti, perché, come scrive lui stesso nella prefazione citando Hesse, «in ogni pena abita un’illuminazione». E qui c’è tutta la sua grandezza (e saggezza): si potrà mai sperare che suoi coetanei come Grass e Habermas, tanto per citare due convinti di essere ancora fari dell’intellighentia di sinistra (e da noi potrebbe farlo forse Umberto Eco?), possano arrivare anch’essi a elencare pubblicamente i loro fallimenti? Difficile, molto difficile.
Asso nella manica
E comunque Enzensberger la provocazione l’ha lanciata, tanto che elenca le sue débâcle con orgoglio, ma senza autocompiacimento, e sollecita i suoi colleghi a smetterla con gli eterni lamenti circa l’ingiustizia del sistema, la stupidità del pubblico che non capisce... «Invece d’intrattenersi con simili rimostranze», scrive, «ha molto più senso tirare fuori la successiva carta dalla manica e, come dice una canzone popolare del 1793, tirare avanti “perché il piccolo lume è ancora acceso”».
Certo quello cui ha potuto attingere lo scrittore svevo è un cospicuo repertorio di fallimenti personali che spazia dalla letteratura al cinema, dal teatro all’opera e all’editoria. Particolarmente numerosi i soggetti per film mai realizzati. E quello più caro a Enzensberger, di cui ha fatto il tema centrale della sua vita, era legato alla figura di Alexander von Humboldt, il biologo ed esploratore vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento: a un certo punto, ricorda lo scrittore, tutto lasciava intendere che il suo soggetto sarebbe diventato presto un film. Poi però, imprevisto, è arrivato Daniel Kehlmann con il suo romanzo La misura del mondo (2005): «In quel libro», ammette oggi Enzensberger, «venne alla luce uno Humboldt che mi era sconosciuto e che rivelava molti bei tratti». Entrati in concorrenza tra loro, fu per questo che quello dello svevo dovette soccombere.
Quelli più interessanti però sono stati i suoi flop editoriali. Giusto cinquant’anni fa, nel 1961, insieme a Uwe Johnson, lo scrittore tedesco orientale fuggito dalla Ddr, a Ingeborg Bachmann e altri decise che la Germania Ovest avesse bisogno di una rivista internazionale, non ideologica, sorprendente ed esteticamente attraente. Ci furono incontri preparatori un po’ dovunque in Europa e dall’estero sarebbero arrivati i contributi di Italo Calvino, Pier Paolo
Pasolini, Jean Genet, Marguerite Duras e Roland Barthes. Il magazine si sarebbe dovuto chiamare prima “Halleluja”, poi “Gulliver” e avrebbe dovuto «evitare tutto ciò che viene coltivato con noia, che è puritano, che viene rimarcato come serio». Si voleva presentare fiction e non fiction in un’unità indissolubile, «una nuova poesia accanto all’analisi di un nuovo modello d’auto»: in breve, con la rivista si voleva «recensire l’intera realtà».
Il leggendario “Kursbuch”
Purtroppo però, ricorda oggi Enzensberger, la realtà non volle lasciarsi recensire... e con una lettera inviata il 15 maggio 1963 ai potenziali collaboratori dovette comunicare che il progetto di rivista non sarebbe neppure partito, causa «l’assurda moltiplicazione dei costi tecnici» necessari per realizzarla. Ma anche in questo fallimento Enzensberger riesce a vedere il positivo: appena due anni dopo sarebbe infatti uscito il primo numero di quello che sarebbe diventato il leggendario trimestrale “Kursbuch”.
Insomma, tanto di cappello a questo «uomo universale», come lo definiscono in Germania. Dopo la vibrante denuncia del terrorismo islamico (Il perdente radicale, 2006), dopo il bellissimo libro sul generale della Wehrmacht Kurt von Hammerstein (Hammerstein o dell’ostinazione, 2008), ora questo così sincero e vivo rapporto sui propri flop: ce n’è abbastanza per capire dove affondi la velenosa indifferenza che da anni gli stanno riservando gli intellettuali radicalchic di casa nostra.