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 2011  gennaio 18 Martedì calendario

UNA LAPIDE DI FUMO E RUGGINE FINISCE COSÌ L’IMPRESA DEI MILLE



Per fortuna la striscia di trenta metri sulla quale appaiono i nomi dei 1.089 che parteciparono all’impresa garibaldina è in acciaio, altrimenti avrebbe fatto la fine del resto, tra ruggine e guano di piccione. Inaugurato solo nel settembre dello scorso anno, il nuovo monumento che a Quarto ricorda i Mille versa già in condizioni deplorevoli. I lampioncini che lo circondavano sono stati divelti, il verde messo a dimora è bruciato dalla salsedine, indizio d’uno sbaglio nella scelta delle essenze, mentre l’Italia a bassorilievo istoriata su una lastra di ferro cominciaamostrarevistosisegni di corrosione. Il visitatore ne trae un senso di trascuratezza, di lavoro mal fatto.
Questa precoce rovina riassume lo stato delle celebrazioni indette per l’anniversario dell’Italia unita: grandi pretese, risultati modesti, retorica senza costrutto, abbandono. A nessuno sembra più interessare che cosa accadde 150 anni fa e perché. Comitati che non si riuniscono o si sciolgono, pochi soldi e ancor meno entusiasmi, con la Lega che si mette di traverso e inneggia alla Padania. Il meglio che si sia riuscito a produrre finora è un breve filmato televisivo, che denota garbo e intelligenza ma passa quasi inosservato tra detersivi e mulini bianchi.
La proclamazione del regno d’Italia avvenne il 17 marzo 1861. I padri della Patria, però, dimenticarono di dichiarare quel giorno festa nazionale. Neppure si presero la briga d’intitolargli vie o piazze nella vasta toponomastica risorgimentale. Da allora in poi abbiamo festeggiato lo Statuto albertino, la breccia di Porta Pia, la Vittoria del 1918, il Concordato con la Santa sede, il Natale di Roma, la Marcia su Roma, poi la Liberazione e infine la nascita della Repubblica. Il IV Novembre è stato di recente riconvertito in festa dell’Unità nazionale, ma non si fa vacanza e si celebra la domenica successiva: come se non ci fosse.
Tutte o quasi le ricorrenze civili sottolineano divisioni e vengono spese per le polemiche del qui e ora: cattolici e anticlericali continuano ad affrontarsi, mentre il Due Giugno è diventato occasione per saccenti moniti antiberlusconiani. Come in tante famiglie, le feste servono per litigare. La presenza del segretario di Stato vaticano, il cardinal Tarcisio Bertone, alla cerimonia per il XX Settembre dello scorso anno ha sancito che un’antica ferita s’è finalmente rimarginata: ci sono voluti più d’un secolo e due concordati.
È quasi un luogo comune che l’Italia, governata per mezzo secolo da schieramenti antirisorgimentali, i cattolici e i marxisti, abbia perso il sentimento di Patria. Eppure nel 1961, quando si festeggiò il centenario con una bella mostra a Torino, non mancavano né orgoglio né senso d’appartenenza. Era la stagione del boom e le Olimpiadi di Roma avevano sancito il nostro rientro nel concerto delle nazioni dopo la guerra persa. Avevamo saputo risorgere da immense macerie morali e materiali grazie al lavoro e
all’ingegno: la ritrovata volontà di futuro ci consentiva di volgere lo sguardo al passato sul quale poggiavano le conquiste del presente.
Poi, anno dopo anno, tutto s’è appannato. Oggi fatichiamo a rintracciare le ragioni del nostro stare insieme: da un capo all’altro della Penisola l’unità è percepita come un peso da austriacanti, neoborbonici, nostalgici del papa re. Se il tricolore è tornato a sventolare, dopo esser stato sostituito per decenni dalle bandiere rosse, è in funzione antileghista. Anche l’Unità serve per dividere. Da ultimo ci si è messo il patriottismo della Costituzione, tanto amato da Ciampi e da Fini, che nega la realtà umana in un giacobinismo sterile (e cos’erano allora i garibaldini? E Cavour? Forse proto-costituzionalisti senza saperlo).
Così, quando si deve erigere un monumento, lo si fa in orizzontale, come a Quarto, perché non disturbi troppo, costruendolo alla meno peggio, quasi fosse una sede dell’Als, e proprio per questo ci somiglia.