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 2011  gennaio 20 Giovedì calendario

IL PUGNO DI FERRO DI UN LEADER DEBOLE

Ad aspettare l’arrivo alla Casa Bianca ieri del presidente cinese Hu Jintao, tra guardia d’onore e bandiere, c’erano un centinaio di studenti - e tra loro c’era Sasha, la più giovane figlia di Obama, arrivata in delegazione dalla sua (prestigiosa) scuola, la Sidwell Friend, anche lei impegnata, come gli altri studenti presenti, in un corso di studi sulla Cina. Non sappiamo se al momento Hu Jintao sapesse di questa presenza, ma non gli sarà sfuggito dopo: e quale maggiore omaggio poteva essere offerto, anche sul piano personale, dal leader Usa al suo equivalente cinese?
La visita a Washington di Hu Jintao non è finita, ma già dalla conferenza stampa congiunta di ieri sembra essersi svolta sotto migliore stella di quella precedente fatta da Obama a Pechino, nel 2009. Freddezza allora, visi distesi e annunci di cooperazione oggi. Un recupero quasi imprevisto, dovuto a una inusuale evoluzione della Presidenza Usa: sulla Cina infatti il leader Americano, partito dialogante e cautissimo, ha indurito le sue posizioni, e contrariamente a ogni buon senso diplomatico, lo scontro sta portando i suoi dividendi. Che la vicenda cinese diventi una indicazione per tutta la seconda fase della leadership Obama?

Per capire la distanza fra i due appuntamenti occorre riandare con la memoria al primo. Era il Novembre del 2009 e il giovane fenomeno politico americano, aveva fatto il suo ingresso sulla scena nazionale e internazionale come l’uomo del dialogo - con il mondo arabo, con tutte le minoranze del mondo, e con i peggiori nemici. Per ricordare quel clima basti qui citare che nella primavera dello stesso anno Obama aveva fatto il suo famoso viaggio al Cairo dove aveva omaggiato la cultura araba con un discorso all’università. Mani tese dunque anche alla Cina, o forse soprattutto alla Cina. In quel novembre il Presidente arrivò al suo più rilevante appuntamento di politica estera, nel Paese da cui l’America dipende di più economicamente, nel pieno di una crisi finanziaria mondiale, avendo fatto di tutto e di più per ammorbidire i Cinesi. Per dirne una: Obama il dialogante aveva rifiutato di incontrare il Dalai Lama (unico tra tutti i Presidenti Usa dagli Anni Novanta) in visita in America. E, per essere ancora più chiari, il Segretario di Stato Americano Clinton si era spinta a dire, prima della visita a Pechino: «Non dobbiamo permettere che le questioni dei diritti umani interferiscano con la crisi economica internazionale, con la questioni di sicurezza e con il tema del cambiamento climatico». Nulla di tutto questo bastò tuttavia ad ammorbidire i cinesi che trattarono l’americano con condiscendenza, e non esitarono, poche settimane dopo, in quello stesso fine anno, a dargli un doppio schiaffo boicottando il vertice di Copenhagensul riscaldamento globale.

Da allora tuttavia, molte cose sono successe sia nella politica interna Americana (innanzitutto la crescita della opposizione interna alla amministrazione), che in quella internazionale. Dopo quel doppio schiaffo, Washington ha lentamente ma chiaramente cominciato ad accettare lo scontro con Pechino. Nel gennaio del 2010 diede il primo segnale di indurimento vendendo 6 miliardi di dollari di armi a Taiwan. C’è stato poi lo scontro sulla censura a Google, e lo scontro sulla aggressione militare della Corea del Nord alla Corea del Sud, la cui responsabilità è stata apertamente attribuita dal Dipartimento di Stato della Clinton alla Cina. Infine, e forse questo è stato un punto di non ritorno, è arrivato poco tempo fa il rifiuto di Pechino a far accettare il premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo. Quella poltrona vuota alla cerimonia del Nobel è diventata la nuova immagine simbolica della lontananza della Cina dalla democraziain stile occidentale.

Sullo sfondo di queste tensioni si è acuito anche lo scontro economico fra i due Paesi, con la imposizione di tariffe alle importazioni cinesi da parte degli americani, e il rifiuto di rivalutare lo yuan da parte della Cina. Una guerra guerreggiata che ha portato di recente la Clinton a guidare un gruppo di undici nazioni del Sud-Est asiatico per contrastare l’espansionismo di Pechino; e il Segretario del Tesoro Geithner a dettare le condizioni di reciprocità economiche alla Cina, chiedendo la rivalutazione della sua valuta e maggior accesso alle imprese americane.Infine, se nel 2009 Obama aveva rifiutato di vedere il Dalai Lama, questa volta ha, platealmente, riunito alla casa Bianca, alla vigilia dell’arrivo di Hu Jintao, un gruppo di dissidenti cinesi. Contrariamente a ogni senso della diplomazia, il pugno duro, stando ai risultati di questi incontri recenti, pare abbia funzionato.

Certo, ci sono molte altre componenti in gioco. Per i cinesi, sostengono gli esperti, gioca il fatto che la visita di Hu è l’ultima del suo mandato e che dunque voglia lasciare come sua eredità un successo diplomatico importante. Inoltre, sempre secondo gli esperti di Cina, il fatto che l’Obama che tratta oggi appaia più debole come Presidente di quanto non fosse all’inizio, lo rende meno «pericoloso» agli occhi di Pechino. Ma per quel che riguarda gli Stati Uniti la lezione da trarre da questa vicenda, pare abbastanza chiara: forse Obama ha capito che una fase per lui è finita; e, forse, ha capito anche che, con questa fase, è finita anche quella parte di sé che voleva conquistare il mondo semplicemente amandolo e facendosi amare.