Varie, 19 gennaio 2011
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Richter Gerhard
• Dresda (Germania) 9 febbraio 1932. Pittore • «[...] un grande artista che è riuscito a non fare delle tecniche espressive un feticcio, a mantenere una temperatura sperimentale per tutta la sua produzione, in un’ottica equilibrata tra etica ed estetica [...] Importante la peripezia esistenziale di Richter, simile a quella di altri artisti come Penck, Baselitz, Polke, tutti provenienti dall’Est europeo e dall’incubo del realismo socialista, in ogni caso ottima scuola tecnica a livello pittorico. Richter [...] lascia Dresda nel 1961 e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf. Da qui uno shock estetico per la scoperta dell’action painting di Pollock, dei tagli di Fontana, dell’anti-arte di Fluxus, e infine della personalità di Beuys. La mano allenata al realismo socialista allenta la presa sulla rappresentazione della realtà, riduce l’apologia delle cose e si sottrae ad ogni retorica narrativa» (“la Repubblica” 2/2/2009) • «Non ho sfiducia nella realtà, di cui non conosco quasi nulla, ho sfiducia nell’immagine della realtà, portata a noi attraverso i nostri sensi, che è imperfetta e circoscritta”. Si potrebbe partire da questa sua dichiarazione per entrare nel merito dell’opera di Gerhard Richter, opera tutta dedicata all’essenza dell’immagine, là dove essa non è più rappresentazione del reale ma creazione di una realtà a sé stante [...] nato a Dresda [...] in pieno nazismo [...] per 16 anni ha respirato l’aria del comunismo della Germania Est prima di trasferirsi nel 1961 nella parte ovest del suo paese, ben consapevole del potere delle immagini fotografiche, vuole rompere o mettere in dubbio la loro presunta oggettività. Ed è sulle foto, prevalentemente quelle di cronaca, che interviene con la sua tipica pittura sfocata, tanto da rendere irriconoscibile il soggetto e, allo stesso tempo, da mettere in discussione se stessa, oscillando tra astrazione e figurazione, giocando tra realtà e apparenza. L’effetto sfocatura, trasformando ogni linea in scia, elide costantemente la fissità della registrazione fotografica al punto da ricondurre la pittura a un inedito regime del divenire. Tale procedimento trova così un perfetto pendant nel passaggio di grandi spatolate sul colore ancora fresco nelle pitture più dichiaratamente astratte, nelle opere che liberano immagini dello stesso farsi del processo pittorico. Questo modo di dissoluzione dell’immagine per costruire pittoricamente la sua visibilità corrisponde ad una inversione di prospettiva: dallo sguardo impassibile e perfetto della macchina (fotografica) all’imperfezione del tocco, dalla fissità al flusso (sfocatura), quasi che Richter rivendichi all’immagine la possibilità di approfondire, trasformare, andare oltre “la realtà del visibile”. L’atto appena colto è infatti già in atto di sparire, di farsi indeterminato, e quindi di aprire infiniti “quesiti di accertamento”, l’istante osservato è già istante indagativo. Ma cosa guardiamo allora esattamente? Una pittura che distrae l’attenzione dal mondo per fissarla sul proprio processo creativo? Un linguaggio provocatorio nei confronti della rappresentazione o un linguaggio che prende le distanze da ogni immagine “messa a fuoco” per favorire un processo immaginativo? Sembrano rispondere a questi interrogativi gli artisti chiamati a confrontarsi con l’opera di Richter. [...]» (Giancarlo Papi, “Avvenire” 23/2/2010) • «Se lo Sturm und drang, impeto ed assalto, del romanticismo tedesco aveva spinto nel 1818 Caspar David Friedrich a cercare nel panico indistinto del paesaggio il “sublime naturale”, nella seconda metà del XX secolo un altro artista, sempre tedesco, Gerhard Richter, ha provato con l’ausilio della tecné della pittura a rappresentare il “sublime artificiale” della nostra epoca. [...] Il tema della dissolvenza è radicato nell’opera di Richter, una forma di difesa dall’obbligo del messaggio sancito dai regimi totalitari, il rifiuto anche di ogni immagine banalmente riuscita per merito (o colpa) della tecnologia avanzata nella società dei consumi. La dissolvenza diventa la forma di difesa per l’artista tedesco che così sviluppa un processo di precarietà visiva nei confronti di un contesto come il nostro, accanitamente esplorato dai mezzi di riproduzione meccanica dell´immagine. “Sfoco i miei quadri”, dice, “per fare in modo che tutto diventi uguale: ugualmente importante ed ugualmente trascurabile. La sfocatura serve a far sì che tutte le parti dell’immagine si uniscano in qualche modo. La sfocatura mi serve anche, forse, per cancellare informazioni superflue, irrilevanti”. Le opere Volker Bradke e Portrait Liz Kertelge (1966) documentano come la dissolvenza possa risucchiare dentro la propria intenzione e indeterminazione ogni dato reale, figurativo e astratto, gruppi familiari e ritratti di attrici famose. Fino ad arrivare a polverizzare paesaggi naturali, Wilhelmshaven (1969) e landscapes urbani Stadtbild Sa (1969). Infine Richter si misura con la sostanza stessa della pittura (luce, materia, colore) in opere come Krems (1986) e Cataletto (1990) che confermano felicemente come non solo il reale ma anche l’artificio dell’arte può acquistare attraverso la dissolvenza caratteri di ambiguità, complessità e felice senso del sublime. [...]» (“la Repubblica” 17/4/2010).