Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano 19/1/2011, 19 gennaio 2011
QUANDO FLAVIO ED EMILIO SI SENTIVANO NEWMAN E REDFORD
Oggi Emilio Fede spiega che era solo uno scherzo, che non pretendeva davvero per sé una parte del prestito generosamente offerto a Lele Mora da Silvio Berlusconi. Intanto si prepara a difendersi dall’accusa di essere, insieme al “vecchio amico” Lele e a Nicole Minetti, il fornitore di ragazze della Real Casa di Arcore. Gli brucia, questa storia. “Perché rischia di far dimenticare la mia lunga carriera di giornalista”, dice. Eppure anche nel suo passato c’è una vicenda che lo ha portato nelle aule di giustizia. Una storia di carte, tavoli verdi e gioco d’azzardo.
Tutto comincia agli inizi degli anni Ottanta, quando Fede è al culmine della sua carriera giornalistica in Rai. Direttore del Tg1, conduttore del programma “Test”. Amante del gioco d’azzardo, s’imbarca in un’avventura pericolosa insieme a una compagnia da “Amici miei”. C’è un finto marchese, Cesare Azzaro, che si ritiene il miglior giocatore di carte del mondo. C’è un conte vero, Achille Caproni di Taliedo, rampollo della famiglia che ha fatto volare gli aerei italiani. C’è un avvocato dal nome altisonante, Adelio Ponce de Leon. Ci sono uomini dello spettacolo e della tv, come Pupo (al secolo Enzo Ghinazzi) e Loredana Berté. C’è un giovane che farà strada, tal Flavio Briatore. Il gioco è semplice: la compagnia individua (anche grazie ad amici che lavorano in banca) ricchi da spennare come polli. Ai malcapitati propone feste, donne, affari. Luoghi d’incontro, case e bische a Milano e Bergamo, le ville del conte Caproni a Vizzolo Ticino e a Venegono, hotel e casinò in Jugoslavia e in Kenya. Già allora le donne erano un ingrediente importante: per rendere irresistibili le feste del contino Attilio, spalleggiato dal brillante Briatore. Le feste in villa, poi le battute di caccia in Jugoslavia, infine i safari in Africa sono occasioni per proporre grandi affari, mirabolanti business a cui non si può rinunciare. Gli affari, però, non si realizzano mai. Di concreto c’è sempre e solo un mazzo di carte che spunta all’improvviso su un tavolo verde.
Cadono nella rete decine di polli, spennati per benino. Tra questi, l’imprenditore Teofilo Sanson, quello dei gelati (su quel tappeto verde lascia 20 milioni dell’epoca), il cantante Pupo (60 milioni), l’armatore Sergio Leone (158 milioni in due serate all’hotel Intercontinental di Zagabria), l’ex vicepresidente della Confindustria Renato Buoncristiani (495 milioni), l’ex presidente della Confagricoltura Giandomenico Serra (un miliardo tondo tondo, in buona parte in assegni intestati proprio a Emilio Fede).
I magistrati di Bergamo prima, di Milano poi (tra questi, anche un giovane Piercamillo Davigo) scoprono che non erano zingarate da “Amici miei”. Indagano sulle bische dorate e scoprono che dietro si muove un gruppo di malavitosi di rango, eredi di Francis Turatello, il boss dedito per anni a Milano al traffico di droga e al riciclaggio. Quello del gioco d’azzardo era una truffa pianificata alla grande e realizzata per anni, con carte truccate e tutto l’armamentario dei bari professionali.
Emilio Fede, star della tv, attirava i polli da spennare. Serviva da specchietto per le allodole. Era consapevole di esserlo? Il processo, che condannerà Briatore e altri della compagnia, assolve Fede, seppur per insufficienza di prove. Agli atti resta una serata memorabile, in cui Emilio al tavolo verde vince 100 mila lire. Poi accusa un fortissimo mal di testa, si scusa con la compagnia e se ne va. Ma nel giro di un’ora il mal di capo dev’essergli passato, perché è già seduto a un tavolo del casinò di Campione. Dove perde, perde: un miliardo di lire secco secco. Vecchi ricordi ormai sbiaditi. Oggi è tempo di bunga bunga.