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 2011  gennaio 16 Domenica calendario

DAVIDE BENATI: «LA VIA EMILIA È LA MIA MEMORIA»

Basta non farci caso. E dopo pochi minuti anche il frastuono assordante della via Emilia (Tir, furgoncini Ape, utilitarie d’ultima generazione, vecchie due ruote) finisce per diventare un piacevole sottofondo, come l’acqua che scorre tra le pale di un mulino. D’altra parte lo studio dove Davide Benati si è rifugiato dalla scorsa estate, prima di essere il forno di Masone, poche case alle porte di Reggio Emilia, era stato il mulino di famiglia: ora, al piano terra, Benati ci ha trasferito per intero il suo mondo di fantasie, protetto da quel fiume ininterrotto di macchine e camion soltanto dai vetri dei grandi finestroni. Mentre sopra continuano a vivere (all’apparenza ormai lontane da tutto) la vecchia madre con due badanti e una cugina novantenne. Un grande stanzone, un piccolo studio, un magazzino: questo è il «loft con l’anima» (come ama definirlo) di Benati. Il pavimento in mattoni in parte coperto da teli di plastica; i tavoli stipati di quelle carte su cui dipingere «tanti mondi» costellati di calle, di frangipane, di fior di loto («I primi fogli li ho comprati in Nepal alla fine degli anni Settanta, ricordo ancora la faccia del doganiere, un Sikh enorme, quando li ha scoperti... per lui era più logico trovare dell’hashish» ); le bacinelle con i colori e i pennelli («Bisogna avere una mano rapidissima perché questa carta con l’acquerello si impregna subito» ). L’universo di Davide è però fatto di arte ma anche di quotidianità (la posta, l’acquisto dei colori e delle tele tutto equamente diviso tra Reggio, Modena, Bologna con qualche diversivo a Milano). A fare da colonna sonora ci sono le voci del «suo» passato (assieme ai clacson della via Emilia): «Da qui sono partito che avevo solo 18 anni, grazie ad uno zio medico che ha garantito per me con mio padre. E mio padre in me ci ha sempre creduto. Devo a lui questo mio cammino: sugli scaffali di casa, nonostante fosse solo un fornaio, ho trovato l’Americana di Vittorini e i racconti di Saroyan» . In qualche modo dice «mi ha spianato la strada» verso la letteratura ma anche verso l’arte. E come prova inconfutabile mostra, prendendolo da una semplicissima libreria in legno colma di memorie, il catalogo della mostra di Van Gogh a Palazzo Reale nel lontanissimo 1952: «L’aveva comprato proprio mio padre, lo rileggo ancora oggi» . Tra questi spezzoni di vita familiare trova molto spesso spazio il rimpianto: «Non ha fatto in tempo a vedere i miei lavori esposti alla Biennale di Venezia nel 1981. Si è ammalato ed è morto quella stessa estate. Fino all’ultimo mi ha detto, vedrai che verrò a Venezia... a costo di venirci a piedi» . Benati (uno degli uomini di punta della Marlborough Gallery) dichiara di dovere molto alla lezione del grande Bacon: «Ho ancora nella testa l’articolo che Dino Buzzati scrisse sul "Corriere"dove lo paragonava ad un Dorian Gray alla rovescia» . E a Milano: «Sono arrivato che c’era il Sessantotto. La mia emozione credo sia stata molto simile a quella di un giovane che oggi scopra Berlino. Mentre arrivavo il mondo, anche quello dell’arte, cambiava e gli antichi maestri dell’Accademia come Purificato, Messina o Cantatore diventavano improvvisamente superati. Mentre cresceva la voglia di andare oltre cercando nuovi sguardi» . E quel Pilot ancora appoggiato alle pareti (scrostate) dello studio, oltre ad essere l’opera di ammissione all’Accademia di Benati, non è che il simbolo di quello che avrebbe voluto essere la nuova arte. Milano era dunque, per il ragazzo di Masone, letteralmente un Altro Mondo («All’inizio sono andato ad abitare in subaffitto nello studio di Felicita Frai in via Montebello» ). Più tardi sostituito dall’Oriente: prima il Nepal, poi la Cina e il Giappone (quello di Hiroshige e di Hokusai ma anche quello del cinema di Kurosawa e dell’Arpa birmana). Un Oriente mai consueto, ma piuttosto rituale, affascinante, sorprendente come quello raccontato da Goffredo Parise nel suo La bellezza è frigida. Sulla via Emilia il traffico non conosce requie («Questa estate, non ho dormito mai. Poi ci ho fatto l’abitudine» ). Il rumore della memoria è continuo ma comunque non «ferisce» anche perché Benati, con la moglie Margherita, vive all’interno (trecento metri in linea d’aria rispetto a quella striscia d’asfalto) «dove davvero tutto sembra essersi fermato» . L’universo di Masone appare immutato rispetto a quello dei suoi genitori (la madre faceva la ricamatrice). A ribadirlo ci pensa il vecchio amico Ulderico che entra, come tutti i giorni (o quasi), per salutare: «La porta è sempre aperta. Come quando c’era mio padre» (Ulderico intanto con discrezione saluta, sorride, promette «tornerò» e se ne va). Seduto sul suo elegante divano anni Cinquanta, Benati (barba bianca, tutto in blu sciarpa compresa) intanto continua a riannodare i fili della propria memoria e della propria ispirazione. Dall’esperienza come grafico per i giornali («Erano vignette di commento per il "Lavoro"con un occhio a Hugo Pratt e Moebius» ) all’entusiasmo per l’Arte Povera e soprattutto per «quella sua capacità di usare la materia» ; dai maestri (Hiroshige e Hopper, Turner e Gastone Novelli, Licini e Chardin, Pontormo e Vermeer) agli amici (come Mario Perazzi, «una delle persone importanti per il mio lavoro e la mia vita» ). E ancora: il legame con Antonio Tabucchi («Avevo letto Notturno indiano, lo cercai e diventammo amici. Mi ha colpito quella sua aria da ufficiale inglese» ) e la passione per i giovani («Sono rammaricato che venga loro negata la prima occasione» ). Giovani artisti compresi: «Mi piacciono Luca Pignatelli, Marco Petrus, Vanessa Beecroft» . Proprio la Beecroft («a volte persino troppo valutata» ) introduce il tema del mercato dell’arte e delle sue star: «Hirst e Koons sono il simbolo dell’arte che diventa moda, o meglio dei meccanismi della moda che si impossessano e stravolgono quelli dell’arte. Il problema è che, come nel caso del teschio di Hirst esposto a Palazzo Vecchio a Firenze, dove passano simili personaggi non cresce più l’erba nel senso che nessuna mostra o evento potrà più suscitare il medesimo interesse» . La luce fredda dell’inverno continua ad entrare dalle finestre con gli infissi gialli, naturalmente fatti da un vecchio amico che «è stato così lento che per ora sono riuscito ad averne solo tre» . Ma non c’è fretta anche perché quest’anno Benati ha deciso «di riposarsi» . Per essere pronto a rituffarsi nell’universo fantastico dei suoi lavori (Tenebrocuore, Lotus solus, Cantico, Azzorre, Grande Mattino). Giocando, ancora, con la memoria. Su quello che lui chiama il suo «tavolo della vita» che l’ha seguito durante tutte le peregrinazioni («perché si può smontare, me l’ha fatto un mio amico architetto» ) ci sono piccole tracce proprio di quel passato: i cd di Bob Dylan, Miles Davis e Amalia Rodriguez, le istantanee (con una bellissima allieva dalla pelle di luna) scattate durante i suoi corsi («L’ultima lezione l’ho fatta confrontando lo studio di Bacon e quello di Morandi» ); una Lettera 32; gli evidenziatori; i taccuini di viaggio verso quell’Oriente dove (dice) «mi muovo come un pellegrino nei colori dei mercati tra sacchi di spezie. Compro zafferano, lapislazzuli e gommalacca, poi gli incensi, una valigia di latta e una pashmina» . Alla fine arriva il momento di spostare le preziose carte («Vanno incollate alla tela con una colla leggera per non saturare troppo la trama» ) per fare posto al parmigiano, al culatello e ad un bicchiere di vino (questa volta è un buon rosso locale «ma avremmo potuto bere anche uno Chablis francese per provare qualcosa di nuovo» ). Uno spuntino che nuovamente riporta Davide indietro nel tempo: a quando da piccolo (suo fratello Daniele, più giovane di quattro anni, ha tradotto Joyce, ha insegnato negli Stati Uniti, in Irlanda e oggi a Budapest) accompagnava il padre a portare il pane al Manicomio di San Lazzaro dove è stato ricoverato anche Antonio Ligabue, il pittore della pazzia padana. Un tempo era una città (oggi c’è solo il Manicomio Criminale), a un passo da Masone: «Quel luogo mi faceva impressione. Mi ricordo sempre l’uomo che veniva, prendeva le ceste con il pane, era sordomuto e aveva alla vita una cintura da campione di box. Tutto mi impauriva, ma al tempo stesso mi affascinava» . Canta Guccini nella sua Piccola città: «Correva la fantasia verso la prateria, fra la via Emilia e il West» . Ma la fantasia, si sa, ama fare brutti scherzi: e così, stavolta, sembra volerci portare lontano da questa striscia di asfalto costellata di memorie familiari: sotto l’enorme albero su cui stava appollaiato lo zio pazzo di Amarcord.