Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 16/1/2011, 16 gennaio 2011
VIDEOGIOCO (E IMPARO?)
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita» . Con questo famoso incipit urlo si apriva Aden Arabia, il romanzo dello scrittore francese Paul Nizan. Detta oggi, dopo ottant’anni, la stessa frase apparirebbe ai più alquanto anacronistica, perché nessuno si sognerebbe di affermare, al di là della pura ovvietà anagrafica, che quell’età è la migliore possibile. Troppe incertezze per il presente e poche speranze per il futuro. Stanno meglio gli adulti, decisamente, che giudicano e poco ne sanno, alla fine, di come davvero, all’alba del 2011, si vive a vent’anni. E neanche a quindici. Trionfano, in genere, i luoghi comuni. Positivi o negativi, esaltanti o apocalittici. Chi sta con Oscar Wilde, che inveiva: «Non se ne può più dei giovani d’oggi, non rispettano più i capelli tinti» . Chi con il patriota Luigi Settembrini, che attribuiva ai giovani soltanto «l’istinto del bene» . Da qui gli opposti slogan da cronaca nera o da spot pubblicitario. A complicare il tutto, c’è poi la faccenda spinosa — affrontata domenica scorsa in queste pagine da Vittorino Andreoli — dell’interazione con il mondo digitale, sentita spesso come sinonimo di passività, coazione a ripetere, rifugio nella virtualità, appiattimento in un eterno presente. Tutti argomenti che aspettano l’eventuale riscontro degli studi a venire, perché sarebbe impensabile che cambiamenti tanto profondi siano verificabili dall’oggi al domani. In questa prospettiva è interessante sin d’ora ascoltare il parere degli scienziati che si occupano a vario titolo della cosiddetta età dello sviluppo. I quali, per la verità, si mostrano molto cauti nel trarre considerazioni tranchant. Per esempio, il gruppo di studiosi di Firenze, come Nicoletta Berardi e Tommaso Pizzorusso, autori del volume Psicobiologia dello sviluppo, che si sofferma sul rapporto tra sistema nervoso ed esperienza. Punto imprescindibile, anche se apparentemente banale: il web va considerato per quello che è, uno strumento ricco di stimoli, tenendo presente che il canale visivo, sia esso un computer o un televisore, ha un accesso diretto alla corteccia cerebrale, provocando subito delle risposte emotive: «Ogni stimolo— dice Pizzorusso — ha un impatto positivo sulle connessioni nervose: un animale che vive in un ambiente pieno di sollecitazioni ha uno sviluppo neuronale molto più forte di animali che vivono in una gabbietta vuota. Il fatto che un ragazzino (ma anche un adulto) frequenti ossessivamente siti pornografici o un blog sulle armi è sintomo di una deriva negativa che ha poco a che fare con Internet. Spesso ci si trova di fronte a casi estremi che spaventano, come il cyberbullismo, ma sarebbe assurdo sostenere che il computer è la causa di questi impulsi violenti: probabilmente senza Internet il bullismo degli stessi ragazzi si manifesterebbe con altri mezzi e in forme diverse» . Altra questione dibattuta con toni spesso apocalittici è la perdita di memoria favorita dal mondo digitale: «Un leone della savana— continua Pizzorusso— non può ricorrere a Google per ricordarsi dove si trova il gregge delle antilopi: è vero che oggi le giovani generazioni tendono a delegare alla rete la loro memoria. Ciò potrebbe cambiare, alla lunga, le connessioni del cervello, ma è presto per dirlo. Spesso gli studenti rinunciano a memorizzare perché sanno che è tutto disponibile on demand, ma nel bagaglio di esperienze i meccanismi della memoria restano indispensabili» . Per precisare il pericolo che la cultura digitale colonizzi la vita dei giovani, Nicoletta Berardi e la psicologa dello sviluppo Ersilia Menesini fanno un’analogia: «Certamente, il cervello degli adolescenti ha un livello di modificabilità molto elevato. Se un bambino di tre anni comincia a suonare il violino dedicandovi dieci ore al giorno, è probabile che diventi un ottimo esecutore, ma avrà uno sviluppo nettamente sbilanciato. Un’attività ripetitiva e fissa provoca sempre uno sbilanciamento, si tratti del violino, della lettura o del computer. Certo, il computer è un mezzo socialmente deprivante: per esercitare il bullismo, il web è un canale privilegiato perché il mezzo indebolisce la consapevolezza della gravità dell’azione, mancando interazioni dirette con la "vittima". Ma se impariamo a camminare camminando e a parlare parlando, è altrettanto vero che impariamo a stare con gli altri avendo relazioni sociali, e rimpiazzare la socialità per molte ore con qualsiasi forma di attività solitaria è sempre negativo. L’interazione digitale con altre persone, via Internet, dà un’idea fittizia di socialità: il contatto vis à vis è un’altra cosa e il cervello, durante lo sviluppo, va allenato in tutte le sue competenze. Non dimentichiamo però che sui sentimenti incide non solo il web ma lo stile di vita improntato alla superficialità e ai valori consumistici» . Sembra scritto ieri, ma Computer per un figlio, di Francesco Antinucci, uscì nel 1999, quando ancora si cominciava a parlare di Google e di Wikipedia. I cliché che Antinucci — psicologo, linguista e studioso di processi cognitivi— provava a smontare sono ancora lì: «Nessuno strumento tecnologico— dice— modifica in profondità il modo di agire. Le nostre tecnologie, che sono tecnologie della mente, aiutano piuttosto la mente a svolgere i nostri compiti, a scrivere, ad analizzare dei dati, a estendere la memoria, a simulare la realtà... Sono come una scavatrice, che fa lo stesso lavoro che un tempo facevano cento uomini: scavare la terra» . E sapete qual è il massimo delle opportunità offerte dal computer a un giovane (e non solo a un giovane)? Il videogame: «Il videogioco è lo strumento tecnologico più intelligente che esista, un simulatore della realtà. Il problema è che ci sono simulatori di una realtà banale e simulatori di una realtà ricca e complessa. Posso imparare a tirare freccette su un bersaglio, ma posso anche imparare sofisticate proprietà del mondo, con giochi tipo SimCity» . Il fatto è che la funzione ludica (per non dire stupida) in genere è infinitamente superiore a quella formativa: «Certo, ma sono gli adulti che non producono videogiochi intelligenti, per la stessa ragione per cui producono televisione mediocre. Siamo noi che inventiamo contenuti per i nostri figli. E poi c’è il problema dell’accesso generalizzato: ma tocca all’autorità dei genitori porre dei limiti, la responsabilità dell’abuso non è delle tecnologie. L’evoluzione della struttura sociale è molto più profonda di quella tecnologica: le donne lavorano, i padri sono deboli, la famiglia è più variegata... E la tecnologia è diventata il parafulmine di tutti i mali. Un errore madornale!» . Detto ciò, l’introduzione del computer come supporto educativo nelle scuole potrebbe aiutare a superare la fase della demonizzazione e ad avvicinare i ragazzi allo studio? «La scuola— dice Antinucci— è rimasta inalterata da 150 anni e vive in un anacronismo ridicolo. Oggi un ragazzo arriva a scuola dopo aver trattato con tutta la complessità del mondo, sia per le relazioni sociali sia per il bagaglio di conoscenze e di esperienze apprese anche dalle nuove tecnologie. E sono esperienze non passive come quelle del telespettatore, ma partecipative. A scuola gli dicono di star seduto su un banco a leggere un libro o a scrivere un componimento, esattamente quel che i professori richiedevano a mio nonno, con la lezione frontale, i voti, l’interrogazione... È assurdo! Una reazione oppositiva è prevedibile, perché nel frattempo il mondo è cambiato: le città, gli uffici, le banche, le fabbriche, gli ospedali... Va trasformata la struttura. Se ci decidessimo, per esempio, a fare degli investimenti per mettere a frutto nell’apprendimento scolastico i videogame, le tecnologie di simulazione o del contatto su reti sociali, i risultati sarebbero straordinari. Perché si sa che l’apprendimento dipende da due fattori: la capacità di capire e la motivazione, che è un fattore puramente emotivo. Il gioco è ciò che l’evoluzione umana si è inventata per creare motivazione. Dunque se ci metto contenuti cognitivi comprensibili ottengo strumenti di apprendimento perfetti. Il resto sono chiacchiere» . Per entrare in una lunghezza d’onda meno filodigitale bisogna rivolgersi a Raffaele Simone, linguista e filosofo del linguaggio, autore anche di studi e pamphlet sulle forme di sapere della globalizzazione (viene riproposto in questi giorni da Garzanti Il mostro mite). «Sono convinto — sostiene Simone — che l’entusiasmo generale e istintivo verso quel che viene chiamato genericamente Internet sia un atteggiamento stupido e pericoloso, proprio di chi questi mezzi non li ha mai fatti funzionare in proprio (come il capo del governo). La rete può essere utilissima per sapere qualcosa di parti del mondo dove accadono cose importanti (dalla Cecenia ad Haiti...) o per ricordarsi cos’è la trasmittanza o come si chiamava l’ultimo amante di Cleopatra; ma allo stesso tempo vomita un oceano indisponente di stupidità, di porcherie e di pornografia talmente vasto che è inimmaginabile schedarlo e controllarlo. Non a caso, la recente inondazione mondiale di pedofilia è potentemente sostenuta da risorse telematiche. Si tratta quindi di una risorsa a doppio taglio: incide e uccide» . Dunque, prudenza nell’adottare il web come strumento educativo? «La scuola e le élite politiche non hanno capito assolutamente nulla e propagandano Internet come se fosse la soluzione di tutti i mali dell’educazione. La diffusione di Internet è ormai adoperata come uno degli indicatori del grado di sviluppo dei Paesi, come se non fossero più importanti l’igiene, l’acqua corrente, la scolarizzazione e la mancanza di crimini. Così facendo, ignorano tra l’altro di avviarsi essi stessi al suicidio: le risorse telematiche sono talmente prendenti, anche su animi solidi, che possono a un certo punto diventare scuola esse stesse e far fuori la scuola in senso convenzionale (come stanno già facendo)» . Per un linguista, quali mutamenti ha comportato nella facoltà argomentativa dei giovani l’interazione continua con il computer? «L’iperdosaggio telematico comporta un effetto apparentemente positivo, che è l’incremento della pratica di scrivere e di scriversi, e uno sicuramente negativo, che è il degrado violento della qualità della scrittura e dei suoi annessi. Il controllo di quel che si scrive diventa sempre più basso, perché l’operazione è fatta in fretta e sommariamente; ma anche perché la "letteratura"telematica (blog, sms, Facebook...) ha lanciato tipi testuali nuovi, brevissimi, informali, generalmente sciocchini (lo vedo dai messaggi che mi mandano i miei studenti), con simboli, abbreviazioni, faccine e altre manifestazioni emotive. Inoltre, siccome il telematico (compreso il telefonino) è infiltrante, queste cose si fanno ovunque: per strada, guidando, a scuola e tra i banchi, creando un clima di deconcentrazione e di "altrove"generale» . E il tramonto della lettura tradizionale? «I vantaggi della lettura sono studiati da psicologi cognitivi da tempo: favorisce connessioni neurali, potenzia la capacità di immaginare soluzioni, arricchisce la sfera linguistica non meno che quella emozionale e testuale. Perdere tutto questo sarà un guaio» . «Non se ne può più dei giovani d’oggi, si picchiano tra loro, ingravidano le ragazze, disprezzano i vecchi» . Come ricorda lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, questa osservazione risale a quasi quattromila anni fa. Fu scritta su una tavoletta al tempo di Hammurabi. La storia si ripete anche nel rapporto tra vecchi e giovani? «Oggi, quando dobbiamo vendere, tutto è bello, sano e promettente. Quando dobbiamo fare notizia, tutto è brutto, malato, preoccupante. Con il risultato che, come i capponi di Renzo, insegnanti e genitori si rinfacciano la colpa dei disastri educativi, salvo trovare un accordo tra loro nel prendersela con la fantomatica "società"o con "i ragazzi di oggi". Si moltiplicano le cassandre e gli struzzi. Faticano a farsi sentire la fiducia nei giovani e i buoni esempi di adulti capaci di lottare, sognare e progettare. Quale testimone passiamo ai nostri figli se di loro ci stiamo costruendo un’immagine così desolante e disperata?» . Quell’immagine non sarà forse anche lo specchio delle instabilità degli adulti? «Benché la famiglia sia molto cambiata, resta centrale il conflitto generazionale, sano finché non si trasforma in guerra. E proprio perché i figli non hanno davanti a sé molte sicurezze, non è detto che non tendano a essere più pessimisti e perfino più conservatori dei loro genitori. Resta il fatto che il clima della famiglia, le relazioni tra i genitori e tra questi e i figli, il grado di apertura all’esterno, l’esempio dei comportamenti di padre e madre, restano centrali» . Ma il rifugio digitale alla fine non è anche una forma di resistenza passiva? «In effetti, il bisogno degli adolescenti di opporsi o almeno di distinguersi dai genitori, si manifesta anche nell’uso, talvolta nell’abuso, di cellulari, sms, chat, tweeting, Facebook, nell’isolarsi dietro le cuffie dell’iPod. Questa intensa attività con il mondo esterno alla famiglia è spesso vista con diffidenza dai genitori che non sono in grado di controllarla se non con mezzi punitivi, di solito inefficaci. Se in famiglia non c’è una buona comunicazione, una fiducia di base e un minimo di conoscenze tecnologiche da parte dei genitori, la tecnologia rischia di essere demonizzata dagli adulti e idolatrata dai ragazzi come via di liberazione» .