Massimo Gaggi, Corriere della Sera 19/01/2011, 19 gennaio 2011
LO YUAN, I COMMERCI E LE NOSTRE ILLUSIONI —
«Hu Jintao annuncerà investimenti negli Usa, comprerà molti prodotti americani. Quando fanno una visita, i cinesi comprano sempre. E una visita ufficiale come quella del loro presidente a Washington ha certamente l’obiettivo di generare titoli positivi sui giornali e in tv. È anche l’interesse di Obama, dopo un 2010 difficile nelle relazioni tra i due Paesi. Ma sulla rivalutazione dello yuan e anche sul riequilibrio del commercio tra le due sponde del Pacifico e sul difficile accesso delle imprese americane al mercato cinese, meglio non farsi illusioni: non ci sarà alcun cambiamento significativo» . Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, il principale centro di ricerche americano focalizzato sull’Asia e specializzato nell’analisi di opportunità e rischi degli investimenti nei Paesi emergenti, osserva con un certo distacco la «storica» visita di Hu. È l’indebolimento della «leadership» americana che rende più difficile costruire meccanismi di «governance» globale e quindi incide anche sulle relazioni bilaterali tra i due giganti o c’è un cambiamento delle dinamiche interne della Cina? Alcuni segnali recenti fanno pensare che fattori come il nazionalismo di un esercito che rivendica autonomia e la forza crescente dei grandi gruppi industriali stiano limitando i margini d’azione del vertice politico di Pechino. «Tutti e due i fattori. Ci sarebbero buone ragioni economiche per rivalutare lo yuan, anche dal punto di vista cinese. Per tenere a bada l’inflazione, ad esempio. Ma non lo faranno perché la constituency degli esportatori è, ormai, una forza irresistibile in Cina. Pesano più delle altre forze che operano nel Paese e infinitamente più dei moniti del ministro del Tesoro Usa Geithner, delle esortazioni di Obama e anche delle minacce di ritorsioni protezioniste da parte del Congresso Usa» . Minacce non credibili? La Cina cresce velocemente, ma è ancora un’economia da 5 mila miliardi di dollari, un terzo di quella americana. «Conta il peso dei Paesi. E quello della Cina è molto aumentato, fino a darle la capacità di resistere alle pressioni americane. Al tempo stesso le traiettorie diverse tra emergenti e mondo industrializzato, più ricco ma destinato ad avere bassi livelli di crescita, crea una divaricazione degli interessi tra i Paesi» . Il politologo Joseph Nye, il teorico del «soft power» , un concetto assai caro anche a Hu Jintao, è appena tornato da un viaggio in Cina dove dice di aver trovato interlocutori assai meno deferenti del solito nei confronti di un’America giudicata in inesorabile declino. Una percezione secondo lui sbagliata, alimentata dal risorgente nazionalismo. «La visita di Hu correggerà, almeno in parte, questa percezione. Con gli acquisti di cui dicevo prima, e magari con l’adozione di posizioni più rassicuranti sulle questioni internazionali che stanno più a cuore agli Usa, dall’Iran alla Corea del Nord. Ma i trend di fondo resteranno quelli che le ho descritto. Soprattutto in campo economico. Guardi l’indagine della Camera di commercio Usa in Cina: ha messo in luce che le imprese americane che non si sentono più le benvenute in Cina sono ormai il 38 per cento, molto più del 23 per cento di due anni fa» . Eppure Obama sembra intenzionato a premere sulle questioni industriali più ancora che su quelle valutarie. «Il 2010 è stato dominato dalla battaglia per uno yuan più forte. Senza esito. Credo anch’io che nel 2011 Washington metterà in primo piano le questioni industriali. Ma i cinesi prenderanno tempo e il tempo gioca a loro favore: dai treni ad alta velocità, alle centrali nucleari, ai jet, la capacità cinese di assorbire le tecnologie occidentali, riprogettarle e trasformarle in nuovi prodotti avanzati sta sorprendendo tutti per la consistenza e la velocità del fenomeno» . La Cina avrà addirittura la forza di mettere in discussione quel sistema valutario basato sul dollaro che Hu definisce «un prodotto del passato» ? «Certo. Wall Street vede rosa, incoraggiata da analisi come quella di Standard Chartered che parla di una nuova fase di crescita globale, un "superciclo"destinato a durare fino al 2030. O quella che sta per essere presentata da Jim O’Neill di Goldman Sachs, che sostituirà i suoi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, indicati anni fa come i Paesi-guida dello sviluppo, ndr) con un numero più ampio di economie trainanti del mondo "emergente". Chi è così entusiasta non riflette abbastanza. Intanto la crescita non beneficerà tutti: come dicevo, Paesi di nuova industrializzazione che crescono molto velocemente e nazioni mature e sviluppate che ristagnano seguiranno rotte sempre più divergenti. Anche il confronto fra capitalismo di Stato e libero mercato si farà più acceso. Lo vediamo già oggi nei rapporti Usa-Cina» . Pensavamo che il mondo sarebbe stato governato dal G2, un condominio cino-americano capace di prendere in mano i destini del mondo dopo il crollo del 2008. Ma lei, dopo l’infruttuoso G20 di Seul del novembre scorso, parlò di G-zero, cioè di un mondo sempre meno governabile. Hu-Obama è il primo summit di questa nuova era? «Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Crescita degli emergenti significa inevitabilmente anche instabilità politica, perché i nuovi protagonisti, al di là della loro struttura politica più o meno fragile, ma comunque non paragonabile alla solidità e alla compattezza delle istituzioni politiche dell’Occidente industrializzato, sono assai poco propensi ad assumersi responsabilità internazionali. Guardi, ancora una volta, la Cina: non muove un dito a livello internazionale se non c’è un suo interesse diretto in gioco» .
Massimo Gaggi