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 2011  gennaio 19 Mercoledì calendario

IL TRADIMENTO DEI LECCAPIEDI


E’ davvero così: a guardarlo dagli amici ci avrebbe dovuto pensare Dio. Il sapore della disfatta è tutto lì, nelle conversazioni miserelle dei compari, nelle valutazioni sguaiate e ginnasiali delle ragazze di cui Silvio Berlusconi credeva d’aver conquistato il cuore con fascino e munificenza. Il peggio sta nella risatina oscena di chi sa di avere realizzato la circonvenzione del vecchio famelico sempre col cuore e il portafogli aperto: il dialogo fra Emilio Fede e Lele Mora varrebbe un ultimo atto da ovazione.
L’ agente dei divi - quello che in caftano bianco porgeva i piedi al massaggio dei tronisti e allo scatto del fotografo - si ritrova colmo di debiti e chiede soccorso al direttore del Tg4. E’ il direttore che per primo ostentò l’adulazione, la fascinazione incrollabile, la fedeltà incondizionata per lo stupor mundi. Fede ha la soluzione. Va lui da Berlusconi. Gli parla lui. Glielo dice: Lele non sta bene, è preoccupato, «una mano bisognerebbe dargliela, hai fatto tanto bene a tanta gente, lui poi se lo merita più degli altri...». Lele è felice, gli pare tutto perfetto, dice a Fede di spiegare a Berlusconi che poi lui metterà in vendita due o tre cose e restituirà il prestito... «Tanto poi campa cavallo che l’erba cresce...».

Un bella compagnia di giro. Si direbbe il gatto e la volpe, sebbene ora dicano di essere stati fraintesi. Fede ottiene un milione e duecentomila euro, ottocentomila vanno a Mora, quattrocentomila se li tiene lui per il disturbo, e figurarsi Mora: «Benissimo, meraviglia, meraviglia, bravo direttore, bravo». E ancora Fede: «Dimmi che sono bravo e sono un amico». «No bravo, di più», dice Mora, che sull’amico - sul termine - non si sbilancia: qui conta la riuscita del piano. I quattrini saranno spillati per mezzo di assegni circolari.

Poi ci sono le ragazze. Sono entrate nell’harem di Berlusconi, per lui si sono spogliate eccetera. Una legge al telefono la lettera che gli ha scritto nella speranza di ricavarne un impiego, si rivolge al suo amore, scrive amore di qui e di là, e quando arriva alla parola «amore» le viene da ridere. Meglio ancora sono le sorelle De Vivo, Eleonora e Imma, scafate frequentatrici dell’harem. In cambio di moine devono aver intascato gioiellini e banconote, ma ora il giochino sembra incepparsi, una dice all’altra: «L’ho visto un po’ ingrassato, imbruttito, l’hanno scorso era più in forma... Adesso sta più di là che di qua. E’ diventato pure brutto. Deve solo sganciare...». Insomma, niente più sta in piedi. La scenografia si sbriciola, gli amici raccattano le banconote da terra, le ragazze scansano il vegliardo, dicono che bisognerà mettersi a rubargli in casa, un po’ è il mondo che Berlusconi vagheggiava e che sfuma, un po’ è la storia dell’eterna ingratitudine umana che si realizza nei modi più desolanti.

In fondo è una vicenda che va avanti, plateale, da un anno. Il primo era stato Gianfranco Fini che si era emancipato dal fascismo e dal mussolinismo per Berlusconi e la rivoluzione liberale, attraverso cui non aveva guadagnato una presentabilità nei sacrari della democrazia, ma un posto dentro all’arco costituzionale sì. E poi, giunto alla maturità nei paraggi della sessantina, Fini ha scoperto che non soltanto il Duce e le leggi razziali, ma anche il Cavaliere e le leggi ad personam - tante volte da lui votate - erano il male assoluto. Poi c’erano stati Gianni Letta e Giampiero Cantoni, gli amici di una vita, e dai dispacci diffusi da Wikileaks era saltato fuori che in certe occasioni conviviali si erano lasciati andare nella descrizione del presidente del Consiglio che fa notte con le fanciulle, e alla mattina sta su per scommessa, e si appisola ad ogni occasione istituzionale. Non c’è sodale che non lo abbia abbandonato, alcuni con peccato mortale, altri veniale. Ma sono una pugnalata via l’altra. Anche il doppiogiochista Marcello Dell’Utri - se avesse ragione la procura di Palermo nelle motivazioni della condanna - che rassicurava Berlusconi sul contenimento delle minacce mafiose, e ai mafiosi diceva di averli introdotti nella fortezza del potere. La fotografia del crepuscolo è questa: è il generale nel suo labirinto, e attorno soltanto ombre di leccapiatti e traditori.