Lanfranco Pace, 18 gennaio 2011
ALLA SBARRA IL LATO NERO DI INDRO
L’udienza è aperta. L’imputato declini le proprie generalità.
“Voi piuttosto, chi cazzo siete, mi avete prelevato sotto viale Majno, sottraendomi alla cura dei miei sedici adorati cavalli, mi avete bendato e portato in questo posto che non conosco, chi cazzo vi dà gli ordini, la Santanché, quel bamba del Sallusti, Berlusconi il giovane, l’altro il meno giovane, l’infido Belpietro, gli Angelucci, Fini, chi insomma?”.
Non tema. Fra di noi non ci sono direttori vicari né condirettori né aspiranti direttori né editori: siamo giornalisti di massa, berlusconiani attivi e passivi, finiani di complemento e c’è finanche un fan dell’onorevole Bocchino. A onor del vero ci sono anche dalemiani del passato e del futuro, non al presente per la buona ragione che dalemiani al presente proprio non si può. Siamo membri della stessa associazione: “Il pensiero a cuspide”.
“Sa dove me lo metto io il pensiero a cuspide…”.
E’ proprio lì che dà il meglio di sé, svasa l’emorroide, titilla la ragade, provoca quel dolore vitale che impedisce di starsene seduto, in giacca, panciotto e medaglie come un capo famiglia del secolo scorso. Il nostro pungolo trafigge le trippe, obbliga a contorcersi, a prendersi la testa tra le mani, a rimuginare sul proprio comportamento. Nome e cognome, prego.
“Mi chiamo Vittorio Feltri e dirigo giornali. Voi invece chi cazzo… sento odore di ribollita. E di cannellini.”
Ancora con questa storia dei cannellini. E’ evidente che ai suoi collaboratori anche se prestigiosi e a lei cari non presta la minima attenzione. In un libro intervista che sta avendo grande successo come d’altronde tutto ciò che la riguarda, Stefano Lorenzetto, che fu un tempo suo direttore vicario, ha già provato a spiegarle che non sono cannellini ma zolfini: zolfini del Pratomagno, vengono da un fazzoletto di terra d’Aretino e sono molto ricercati perché non hanno effetti collaterali, capirà che vista la cubatura del locale il collaterale possa essere molto fastidioso. E’ strano però che si accorga di fagioli che cuociono e non del suono ritmico, tribale di una Lettera 22 qui esposta come una reliquia: non sente che da quando è entrato i tasti si sono messi a ticchettare da soli, come animati da oscura forza magica? Riconosce la sacralità del luogo, non sente il Grande Vecchio che freme?
“Cristo ecco dove siamo, in via Fatebenefratelli, alla Tavernetta, era la sua trattoria, ci sono venuto con lui e poi qualche volta da solo. Da quando lui non c’è più, Elio mi ha sempre dato il suo tavolo. Ma com’è che Elio…”.
Ha chiuso qualche giorno per Natale e noi ne abbiamo approfittato per portarla qui dove tutto cominciò. Vuole la presenza di un avvocato difensore?
“Gli avvocati vadano tutti a fare in culo”.
Non avevamo dubbi. Allora procediamo. Si alzi in piedi e si dia lettura dei capi d’imputazione.
Feltri Vittorio, detto Toio fino all’età di venti anni da se stesso e dagli amici, in verità pochi, nato a Bergamo il 25 giugno 1943, è accusato di concorso esterno in cinismo nazionale. La fattispecie di reato: aver intenzionalmente tradito la parte migliore di Indro Montanelli, quella che ci aprì al mondo raccontando la repressione sovietica in Ungheria, ed essersi invece piattamente accucciato sulla sua parte peggiore, archetipo del cinismo nazionale, quella che lo portava ad accettare l’invito di qualsiasi uomo di potere desiderasse incontrarlo, Fanfani, Rumor, Cefis, Rizzoli, Monti, salvo dirne subito male alle spalle dando così conforto e misura alla sua superiorità intellettuale. E’ il Montanelli che si proclamava di fede repubblicana, diceva che La Malfa era il migliore e poi invitava a votare per la Democrazia cristiana turandosi il naso. Che si mostrava regale a Cortina, che adunava i suoi lettori per farne un gruppo di pressione e magari chissà un partito, che fingeva di non subire il fascino dei riconoscimenti e dei premi e invece non si capacitava che non li dessero tutti a lui. Anche lei frequenta Cortina, non manca mai un’occasione mondana, una festa importante o un premio letterario. Anche lei crede nel giornale come strumento di organizzazione collettiva dei lettori, è la logica funesta del “Che fare?”. Anche lei gongola quando va a presentare un libro o partecipa a un dibattito e trova duemila persone che in rasa Padania lo aspettano buoni buoni da ore. Anche lei, come Montanelli, nel suo foro interiore disprezza la politica: pensa che Silvio Berlusconi sia un autocrate megalomane e autoreferenziale e non potrà mai essere un uomo di stato, almeno nel senso occidentale del termine, ciò nonostante si protegge, dice che è il migliore di tutti gli altri o comunque il meno peggio. La doppiezza di linguaggio è tollerabile in un politico, infelice di per sé perché può scegliere i nemici ma non gli amici. Ma in un giornalista no. Né nel maestro né nell’allievo.
Iscrittosi fin da giovane alla direzione, è colpevole di aver sviluppato di questo particolare mestiere un’idea originale sommamente perversa. Si fa pagare, profumatamente, l’ha detto lei, per prendere un giornale in crisi. Bonus d’ingresso, entra, prende una faccia a caso fra le tante che le stanno sullo stomaco o un gruppo sociale potenzialmente ostile e giù sberle per settimane, per mesi. Le vendite salgono, la nave si raddrizza, arriva in rada: e lei scende, facendosi pagare ancora più profumatamente, è sempre lei che lo dice. Poi altra nave, altro giro, di nuovo incassa, sale, randella, raddrizza, arriva in porto, scende e incassa. A dire il vero questo in sé non sarebbe reato, semmai grande talento. Ci siamo chiesti però perché si comporta così, perché non ha fatto come altri che fondano il loro giornale e se lo crescono e se lo curano con amore e premura, tenendo legittimamente d’occhio anche il proprio portafoglio? Poteva fare come Scalfari invece no. Abbiamo il fondato sospetto che lei più che direttore si senta un marchio, un labello doc che secondo l’aria del tempo e gli umori del momento vale tra i trentamila e i cinquantamila lettori: che ha formato a sua immagine e somiglianza, allenandoli alla reazione più che alla comprensione. Una massa d’urto a cui l’arzigogolo e la sfumatura danno l’orticaria, uomini e donne che vogliono slogan e la prospettiva eccitante di una pubblica gogna. Per questo non dice mai loro che la politica è maledettamente complicata, la macchina dello stato non ne parliamo, che riformare significa scontentare e la sola riforma accettata dalla nostra alta cultura è quella che riguarda il vicino. Così i suoi lettori, impenetrabili al dubbio, la seguono a testa bassa ma sono sempre gli stessi, girano in tondo come le vacche del ventennio. Di volta in volta li ha sottratti agli altri giornali del centrodestra il cui bacino globale infatti è rimasto in tutti questi anni invariato. Con tutto il suo talento, i suoi sforzi, le sue prime pagine a effetto non ha sedotto nessun lettore di sinistra: a Repubblica tanto per dire non gliene ha rubato uno che sia uno. Sembra che in cuor suo non li voglia ora, ma quando finalmente arriverà sull’unica poltrona che conti davvero, quella di via Solferino, dove già stava per sedersi anni fa e maneggioni e sinistri congiurati si misero di traverso a sbarrarle la strada. Si sente che è il suo sogno, mondare il Corriere dalle scorie rosa e riconsegnarlo a una borghesia riconciliata con se stessa: lo ha confessato e se non gliela farà lei si augura che ce la possa fare suo figlio Mattia, che ha cuore e cervello, anzi farà di tutto per aiutarlo. Siamo più che d’accordo su Mattia, è uno di noi: ma buon Dio far ballare tante teste in attesa del D-day, non è anche questo una forme sottile e crudele di cinismo?
Ha esordito all’Eco di Bergamo, poi è passato alla Notte, dove Nino Nutrizio pare le abbia detto “se vieni dall’Eco che è il giornale più brutto del mondo sei per forza di cose un cretino: hai tre mesi per convincermi del contrario”. Lei era così poco cretino che entrò al Corriere della Sera, dove rimase quindici anni come inviato prima che esplodesse repentina questa voglia di dirigere. Più che una voglia, più che una vocazione, una bulimia, un virus: Bergamo Oggi, l’Europeo, l’Indipendente, il Giornale, il Borghese, Quotidiano Nazionale, Libero, di nuovo il Giornale. Otto. Anzi nove: nel dicembre 2010 ha lasciato il Giornale ed è tornato a Libero, che a suo tempo fondò, nella doppia veste di direttore editoriale e di editore con in mano il 10 per cento del capitale che vale più di una golden share. Ritrova in loco come direttore responsabile ed editore con la stessa quota parte del capitale il vecchio sodale di Bergamo Oggi, di Libero e della prima direzione del Giornale: Maurizio Belpietro, il suo Sparafucile preferito, di cui pure disse che era il numero uno dei numeri due, che se pure avesse corso da solo sarebbe arrivato lo stesso secondo. Tra voi c’è un vulnus: Belpietro è stato il solo ad averlo licenziato in tronco, quando arrivò alla direzione del Giornale mise fine alla sua collaborazione senza neanche farle una telefonata. Non tutto riluce dunque in queste foto ufficiali da ticket perfetto, dove vi sorridete l’un l’altro, calmi, appagati ma si sente già il rumore dei denti che si affilano.
Tutto ciò sconvolge questa povera corte. La sua smania di movimento non è affatto dettata, come lei dice, dalla paura della noia, la nebbia silenziosa che ci accomuna in una singolare indifferenza e che ognuno di noi teme. Né dalla ricerca di vaga libertà da parte dell’“anarchico liberale” che dice di essere. Il suo movimento perpetuo è quello dello squalo. E’ fine a se stesso e alla sua sopravvivenza. E non è questo cinismo?
“Lei è come al solito male informato. Di giornali ne ho diretti dieci. C’è anche il Sentierone, dal nome del viale alberato su cui i bergamaschi fanno lo struscio, un settimanale che stava in piedi con la sola pubblicità, in largo anticipo sulla free press”.
O Vanità delle vanità. Si dia lettura del secondo capo d’imputazione: lei è accusato di essere stato giustizialista, garantista, dipietrista, antidipietrista, poi ancora dipietrista che firmò la pace dei bravi proprio il giorno in cui l’ex pm fu eletto al Mugello. Come testimoni a carico abbiamo persone informate dei fatti che sono solite perdonare ma non dimenticare. E’ altresì accusato di essere stato berlusconiano di contorno e leghista di sostanza, ah quel suo andare da Bossi allora reietto a vendergli la benevola attenzione politica dell’Indipendente, da lei appena rilevato. Fu anche finiano per molto tempo, che fosse un pericolo per questo centrodestra l’ha scritto solo nella primavera scorsa. Casiniano non è stato mai, le diamo atto, non per merito suo ma della curia di Bergamo che l’ha vaccinata dai democristiani. Oggi stravede per Tremonti e occupa il centro dell’ultima triangolazione utile del declino berlusconiano. Come dire, il cammino è a zig-zag ma la prospettiva è radiosa.
Appena tornato a Libero avete subito dato un assaggio delle potenzialità di coppia. Belpietro spara in prima pagina una cosa che più o meno suona così: c’è in giro uno che dice di essere stato avvicinato da un altro che gli avrebbe offerto alcune centinaia di migliaia di euro per fare nella prossima primavera un attentato a Fini facendone ricadere la colpa su Berlusconi. In conclusione, scrive Belpietro, io questo signore, l’ho incontrato, non mi è parso né pazzo né millantatore quindi noi vi raccontiamo questa parte di verità, che altri trovino quella mancante e verifichino la fondatezza dell’intera storia. Da trasecolare. Nei paesi liberali chi pubblica cose simili è costretto a chiudere o a pagare decine di milioni di dollari di danni e non c’è possibilità di accordo casereccio come con Di Pietro. Questo sarebbe un buon inizio? Non venga a dire non c’entra nulla perché è sempre sotto interdizione da parte dell’Ordine. Non ha mai parlato così tanto come da quando le hanno messo il bavaglio, chi può credere poi che le abbiano tenuto nascosto una chicca del genere? Colpivate uniti anche quando marciavate separati. C’era il solleone. Il Giornale, che ancora era suo, e Libero, che allora era del solo Belpietro, ci hanno tenuto appesi al mercato immobiliare di Montecarlo, politici a frotte che aspettavano rivelazioni sulla signora, sul di lei marito e sul di lei fratello, giornalisti d’inchiesta sguinzagliati alla fiera del mobile, nei paradisi fiscali, in cerca della pistola fumante che mettesse fine alla carriera del traditore. Niente di niente. Un lungo amplesso senza orgasmo, cioè noia. Voi lo sapevate che sarebbe finita così, che non sareste venuti a capo di nulla. Allora anziché punzecchiare o sbeffeggiare, perché essere partiti in guerra, perché aver colpito sistematicamente e senza scopo? Il precedente, l’aveva creato lei, con Dino Boffo. Tirò fuori un vecchio processo a suo carico per molestie conclusosi con un patteggiamento, disse che agli atti in allegato c’era una velina di questura in cui Boffo era “attenzionato” come omosessuale. La storia del processo era vera ma vecchia di anni, quella della schedatura poliziesca una fandonia. Lei disse di aver avuto una soffiata d’oltreTevere, in parte tenne il punto, in parte chiese scusa. E’ andato anche a pranzo con Boffo e racconta che né lei né il suo ospite vi siete sentiti a disagio. Un anarchico liberale, addirittura un ex socialista se è vero quello che racconta, invece di indignarsi contro la polizia che ancora “attenziona” presunti o veri omosessuali, si attacca a un vago sospetto di doppiezza morale solo per servire la cordata amica dentro la curia romana? Abbia il coraggio di ammettere che questo è cinismo totale, assoluto.
“Abbiate voi il coraggio di ammettere che vi rode perché come diceva il marchese, io so’ io e voi non siete un cazzo! E poi una volta per tutte ma che cazzo è ’sto cinismo?”.
Si metta a verbale che l’imputato notoriamente dice parolacce ma non le scrive mentre noi siamo obbligati a trascrivere tutto. Si aggiunga che è così provato che non ha nemmeno alzato lo sguardo verso l’iscrizione sopra la nostra testa: “Cinico è colui che conosce il prezzo di ogni cosa ma il valore di nessuna. Oscar Wilde”. Nel suo nome la condanniamo a starsene qui fino alla Candelora, a cucinarsi gli zolfini e la ribollita e tutto quel che vuole, le cantine sono piene, c’è anche un ottimo Chianti al fiasco.
“In fondo siete carini, non è una pena che mi infliggete ma un sollievo, non fosse per i cavalli. Stare lontano dalla famiglia, dai figli, dai nipoti… li amo davvero ma dopo un quarto d’ora che li vedo due palle. Starmene qui a rileggere e a meditare sull’opera completa del Maestro, una meraviglia. Finalmente solo”.
Questo non l’abbiamo detto.
“Cosa?”
Che starà da solo. Proprio in questo momento stiamo arrestando Mario Giordano per manifesta ingratitudine e Filippo Facci per wagnerismo manierato. Saranno “ristretti” anche loro qui, alla Tavernella.
“No, Facci no”.
Una pena sia pur minima deve scontarla. O no?
“Ma andate davvero a dar via il culo!”.
I precedenti arresti della Polizia fogliante – disponibili sul nostro sito – sono usciti il 28/12 (Edoardo Camurri arresta Woody Allen), il 30/12 (Stefano Di Michele arresta Bruno Vespa), il 31/12 (Annalena Benini arresta Carla Bruni), il 4/01 (Mariarosa Mancuso arresta Umberto Eco), il 6/01 (Camillo Langone arresta Marchionne e Marcegaglia), l’8/01 (Pietrangelo Buttafuoco arresta Claudio Magris). Continua.