Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  gennaio 16 Domenica calendario

SVENTOLA A DESTRA IL PREGIUDIZIO DI SINISTRA

In Italia è un vizio antico, quello d’usare il bastone contro la Consulta. Si può citare per esempio quella volta (era il 1956, l’anno di Lascia o raddoppia?) in cui Tambroni, ministro dell’Interno, reagì veementemente all’annullamento di alcune norme poliziesche contenute nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. O l’altolà di due ministri del Tesoro (Amato e Carli, rispettivamente nel 1988 e nel 1990) contro le sentenze che incidono sulla spesa pubblica. O le contumelie di Pannella, dalla "corte Beretta" alla "grande cupola della partitocrazia". Oppure le manifestazioni di piazza del 1998, dopo la decisione che riscrisse l’uso processuale delle dichiarazioni dei pentiti. O ancora il fuoco di fila che puntualmente s’alza alla vigilia di ogni referendum, e che ha toccato l’apice nel 1999, in occasione del referendum in materia elettorale promosso da Segni e Di Pietro.

Ma l’accusa che le rovescia addosso a giorni alterni Silvio Berlusconi – quella d’essere un avamposto comunista – segna un salto di qualità nell’offensiva. Perché Berlusconi ha intonato questa musica da presidente del Consiglio, innescando uno scontro frontale tra il vertice politico e quello giudiziario. E perché l’accusa mira a delegittimare la Corte costituzionale alla radice, delegittimando al tempo stesso le garanzie della nostra vecchia Carta. C’è infatti un sottinteso nel suo ragionamento: se la Corte è un organo politico benché privo d’investitura popolare, tanto vale trasferire le sue competenze agli organi elettivi, invece di lasciare campo libero a chi ugualmente fa politica ma sotto mentite spoglie. Questa pretesa riflette tuttavia una concezione primitiva dello Stato di diritto. Di più: si disfa dell’idea stessa di garanzia costituzionale, giacché un garante che non sia anzitutto indipendente dal principe politico è un ossimoro, un po’ come se l’arbitro fosse pagato da una delle due squadre in campo. Ma se non c’è garanzia senza indipendenza, non c’è infine libertà senza garanzia, senza un potere che faccia da freno o contrappeso rispetto ai voleri della maggioranza uscita dalle urne. Ecco perché in Assemblea costituente venne sconfitta la posizione di Nenni e di Togliatti, caparbiamente ostili al tribunale costituzionale, a meno che tutti i suoi membri fossero scelti dalle assemblee rappresentative. Ma la storia talvolta fa dei capitomboli, e questa vecchia bandiera della sinistra oggi a quanto pare sventola sui palazzi della destra.

Eppure basterebbe intendersi su almeno due premesse. Primo: ogni sentenza di costituzionalità ha carattere politico. Lo capirebbe anche un bambino, dato che le pronunzie costituzionali hanno sempre una legge per oggetto, e dato inoltre che la legge rappresenta il veicolo della decisione politica. Secondo: non è la piazza a decidere i principi che regolano la nostra convivenza. Se lo Stato di diritto s’affida a un corpo di custodi, è perché la piazza a suo tempo mandò a morte Gesù per salvare Barabba, perché la stessa piazza durante il secolo ventesimo acclamò feroci dittatori (nel 1933 Hitler conquistò il potere sulle ali di un’elezione vinta l’anno prima con il 37,4% dei consensi, 13.745.000 voti), perché insomma le Costituzioni liberali presidiano un sistema di valori, e li sottraggono al dominio delle folle.

Niente da fare, di questi tempi l’astio è più potente di ogni raziocinio. Specie quando sono in gioco gli interessi vitali di Silvio Berlusconi, perché allora il giudizio costituzionale si trasforma in un’ordalia, un giudizio di Dio. Un solo esempio: la sentenza n. 262 del 2009, quella che ha colato a picco il lodo Alfano. Già la sua difesa processuale – affidata all’Avvocatura dello Stato – usò nel frangente toni apocalittici. Nella memoria difensiva si leggeva infatti che in caso di bocciatura avremmo subito danni «irreparabili» nel buon funzionamento degli organi elettivi. Si profilava addirittura il rischio che si dimettesse il Premier. S’evocava il fantasma di Giovanni Leone, che lasciò anzitempo il Quirinale dopo le polemiche sullo scandalo Lockheed. E in conclusione veniva decantata la specifica virtù del lodo Alfano: un parafulmine contro i temporali giudiziari che altrimenti interromperebbero ogni legislatura, dato che «la sola minaccia di un procedimento penale può costringere alle dimissioni». Ora, a parte il fatto che Leone si dimise per una campagna giornalistica e non per un rinvio a giudizio, a parte il fatto che Berlusconi ha la scorza dura (in caso contrario si sarebbe già dimesso, trovandosi imputato in vari processi prima che il lodo Alfano diventasse legge), a parte il fatto che con questa logica perversa i giudici non dovrebbero neppure aprire indagini su quanti ci governano, insomma a parte tutto rimane in sospeso una domanda: è normale una difesa così, a spada sguainata? No, non è normale. Intanto, l’Avvocatura rappresenta il governo dinanzi alla Consulta, ma già Calamandrei osservava che i governi farebbero meglio a non costituirsi, rimettendosi al giudizio della Corte. In secondo luogo, non è detto che l’esecutivo (e perciò l’Avvocatura) debba per forza sostenere la legittimità dell’atto normativo sindacato: di solito succede, ma in qualche caso (sentenze n. 63 del 1966, n. 305 del 1995, n. 233 del 1996 e via elencando) succede anche il contrario. In terzo luogo, l’argomento delle dimissioni innescate da un’inchiesta giudiziaria è un argomento politico, non tecnico; dipende da una scelta discrezionale rispetto alla quale il diritto resta muto, ed è invece sul filo del diritto che corre il sindacato di costituzionalità.

Ma quando il diritto è andato per traverso al presidente del Consiglio, quando alla fine della giostra la Consulta ha annullato il lodo Alfano, da quelle parti hanno avuto bisogno d’un ombrello. Sentenza politica, ha subito osservato il sottosegretario Bonaiuti. La Corte è ormai al tramonto, non è più un organo di garanzia, risponde a logiche partitiche anziché costituzionali, ha aggiunto di rincalzo il costituzionalista Gasparri. E intanto Bossi, tanto per sedare gli animi, evocava i rumori della piazza. Mentre Berlusconi puntava l’indice contro la «slealtà»: non solo della Corte costituzionale, anche del capo dello Stato. (…)

Sta di fatto che tra le idee germogliate come tulipani nel 2010 c’era anche quella di fare la festa alla Consulta. Come? Stabilendo che in futuro fosse eletta direttamente dalle Camere, pur senza alterarne le vecchie competenze. E il loro esercizio? Se per vestire un abito da giudice costituzionale devi metterti in coda alla sartoria della politica, ti cuciranno addosso una divisa da lacchè, con buona pace dell’indipendenza che reclamerebbe la tua carica. Non che in giro per il mondo non s’incontrino altre Corti designate dalle assemblee parlamentari: il mondo è bello perché è vario. Oltre che in Germania - l’esempio cui s’ispirano i nostri ri-costituenti – succede per esempio in Belgio e in Svizzera. In Spagna il Parlamento sceglie 8 giudici su 12 del Tribunal constitucional, cui s’aggiungono i 2 designati dal governo e gli altri 2 dal Consejo general del poder judicial (un Csm della magistratura giudicante). In Austria come in Francia, oltre al Parlamento ci mette becco il presidente (nel primo caso con un potere di tipo formale, nel secondo scegliendo un terzo dei membri del Conseil). Altrove la decisione ricade per intero nelle mani del capo dello Stato: è il modello americano, il Paese che nel lontano 1803 inventò il giudizio di legittimità costituzionale.

Sennonché in queste faccende contano i dettagli, le modalità procedurali. Negli Stati Uniti il presidente deve procurarsi l’advice del Senato, che si traduce in un potere di veto, benché raramente esercitato; mentre i candidati vengono sottoposti a un’audizione pubblica fin troppo impietosa. Tanto per dire, in Russia il sistema è analogo, ma senza alcun passaggio in Parlamento; e tutto cambia come dalla notte al giorno. In secondo luogo conta il paesaggio istituzionale e culturale in cui s’immerge la sovranità della politica. Contano le tradizioni, il rispetto delle competenze, anziché delle appartenenze di partito. Altrimenti potremmo prendere ad esempio il Regno Unito, dove una Corte costituzionale non esiste (e magari è proprio questo il sogno inconfessato dei neoriformatori); però da quelle parti non c’è neppure una Costituzione scritta, e ciò nonostante i giudici – fin dal 1607 – vengono definiti a buona ragione «signori del diritto».

Resta da chiedersi perché mai noi italiani dobbiamo sempre scimmiottare gli altri, anche quando il made in Italy funziona a meraviglia. La miscela brevettata dai costituenti - 5 giudici costituzionali eletti in Parlamento, 5 dalle magistrature superiori, 5 nominati dal capo dello Stato – ci ha garantito per oltre mezzo secolo l’opera di un organo imparziale, al di là del dissenso che ciascuno può nutrire su questa o quella decisione. Peraltro durante i lavori dell’Assemblea costituente venne messa ai voti la proposta di far eleggere la Corte dai soli parlamentari; ma fu respinta perché – come disse Ambrosini – se il custode della politica nasce dal ventre della politica allora è un figlio inutile, non vale un fico secco. E chi caldeggiò nel 1947 la proposta? I comunisti, gli stessi che evidentemente dettano legge nel terzo millennio.