A. N., Il Sole 24 Ore 16/1/2011, 16 gennaio 2011
MOHAMED, JAN PALACH DEL MAGHREB
Fatma, compagna di liceo di Mohammed, non vuole più passare davanti alla prefettura di Sidi Bouzid. Vicino all’inferriata aveva deposto un fiore di plastica alla memoria di Mohammed Bouaziz, strappato via prima che Ben Alì, travolto dalla piazza, volasse in esilio verso Gedda. La rivolta è cominciata qui, in questa cittadina anonima e slabbrata della Tunisia profonda quando il 17 dicembre, di fronte all’ufficio del governatore, Mohammed, 26 anni, laureato in economia, disoccupato, si è dato fuoco con la benzina per protestare contro il sequestro del suo banco di ambulante.
Forse Mohammed resterà nella memoria dei tunisini come Jan Palach in quella di cechi che in piazza Venceslao a Praga, nel ’69, fece lo stesso gesto davanti agli invasori sovietici. Ai suoi funerali parteciparono mezzo milione di persone. Mohammed muore in un ospedale a Tunisi, lo va a trovare anche Ben Alì, fotografato davanti un corpo completamente bendato e irriconoscibile, tenuto in vita artificialmente. Un tentativo, quello del presidente, di smorzare la rabbia e l’indignazione popolare che non funziona, così come più tardi non avranno alcun effetto i suoi discorsi in tv.
Il 5 gennaio seimila persone partecipano al suo funerale, quando Mohammed è già diventato un simbolo della rivolta: quel giorno però nessuno ancora immaginava che insieme a lui stavano sotterrando il regime.
Anche se erano cominciate da un po’ le manifestazioni spontanee di solidarietà nei confronti del gesto di Mohammed e nel centro-sud, la regione del Jebel, avara di lavoro, dimenticata dai piani di sviluppo sbandierati sulla costa, si stavano moltiplicando dimostrazioni e scontri tra giovani e forze della sicurezza.
L’ondata prima si diffonde nella vicina Kasserine a un centinaio di chilometri da Sidi, poi a Thala e Gafsa, teatro della rivolta nelle miniere del 2008: i disordini dall’interno si propagano quindi sul mare, a Sfax, Gabes, Soussa. Si teme che le proteste possano arrivare anche a Tunisi ma intorno ai primi di gennaio, università e scuole sono ancora chiuse per le vacanze. Inoltre nei grandi centri e nella capitale l’apparato poliziesco tiene: i controlli sul territorio e su internet si fanno più stringenti.
Ma questa volta la museruola del regime, una macchina pervasiva ben oliata da Ben Alì, che prima di diventare presidente era stato un abile e duro ministro degli Interni, non funziona. Cosa è accaduto lo spiega bene Sahbi, 28 anni, ricercatore in Scienze Politiche all’Università Saint Joseph di Beirut, uno dei giovani più brillanti del partito di opposizione Pdp.
«Quello che è successo a Sidi Bouzid è stata la replica del dramma che c’era stato a Monastir un anno prima quando il giovane Abdessalem Trimeche si era bruciato vivo davanti al municipio. Ma allora la censura era riuscita a contenere la diffusione della notizia. Anche Abdessalem, disoccupato, protestava perché non trova posto, una frustrazione insostenibile, con un peso sociale enorme per le famiglie: ogni anno sul mercato del lavoro si presentano 80mila nuovi laureati che non trovano sbocchi adeguati».
Il caso di Mohammed a Sidi Bouzid - seguito da altri quattro suicidi, due nella stessa città - poteva finire come quello di Monastir, ignorato dall’opinione pubblica. «Di fronte al silenzio dei media ufficiali - continua Sahbi - la protesta è esplosa su internet dove sono stati diffusi i video degli scontri tra manifestanti e polizia che il regime cercava di oscurare. Ma in risposta i server governativi sono stati attaccati dagli hacker: anche dall’estero». La stampa e la tv, dopo il silenzio iniziale, sono state costrette a riportare la notizia e Sidi Bouziz è diventato un caso nazionale che il 14 gennaio ha travolto un leader inamovibile da un quarto di secolo. Un giovane disperato, disoccupato, senza prospettive, si uccide tra le fiamme e muore. Provo a ripeterlo mentalmente, per immaginare questo gesto in un altro luogo che non sia Sidi Bouzid e la Tunisia.