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 2011  gennaio 18 Martedì calendario

Al Louvre il ritorno dei morti viventi - Al Louvre si scopron le tombe, si levano i morti ed è tutto un fiorire di fantasmi, spettri, apparizioni, zombi, danze macabre

Al Louvre il ritorno dei morti viventi - Al Louvre si scopron le tombe, si levano i morti ed è tutto un fiorire di fantasmi, spettri, apparizioni, zombi, danze macabre. Una mostra piccola ma raffinatissima, molto horror-chic, fa da introduzione a un ciclo di film che partirà il 21 febbraio. Titolo dell’insieme: «Revenants», ovvero «Immagini, figure e racconti del ritorno dei morti» (ma qui al visitatore italiano scatta subito un’associazione d’idee diversissima: in una delle sue rare battute, Vittorio Emanuele III chiamava appunto «revenants» i politici prefascisti che nel postfascismo risorgevano dalle loro catacombe). Tant’è: il ciclo del Louvre è piacevole; anzi, per chi ama il genere, irresistibile. Si parte, ovviamente, dal XV secolo e dalla sua passione per le danze macabre. Di colpo, mezza Europa sembra ballare abbracciata a scheletri che trascinano clerici, nobili e popolani, un valzer simbolo dell’unica democrazia dell’epoca: quella davanti a Sorella Morte. Ovviamente con intenti moralizzatori, doverosamente cristiani: polvere alla polvere, vanitas vanitatum, memento mori, eccetera. Il Louvre ha scelto un celebre esemplare di danza macabra, quello delle Cronache di Norimberga , quasi allegro nel suo vortice di ossa. Ma di fianco c’è uno squisito schizzo di Jacopo Bellini, datato 1450, I tre morti e i tre vivi , che ristabilisce subito le gerarchie artistiche. Il Barocco, al solito, fa spettacolo. Anche qui, la morte ti fa ballo. Il Louvre esibisce un carnet di disegni per un «ballet de cour» del 1632, quello Du chasteau de Bicetre , fatto radere da Luigi XIII e sulle cui rovine allignavano i fantasmi. Che, secondo il raffinatissimo costumista, Daniel Rabel, entrano in scena coperti dalla testa ai piedi di mantelli neri come delle afgane talebanizzate, poi fanno cadere i pepli e, oplà, iniziano a piroettare in un’elegante mise argentata, con tanto di piume bianche e nere sull’elmo scintillante. Ma già si accendono i Lumi e il vecchio teatro barocco con i suoi moralismi da Commendatore si evolve in fantasmagorie, per l’epoca, high-tech. Così risorgono per la prima volta da un ignoto museo Gassendi di Dignes-les-Bains undici placche animate per uno spettacolo di lanterna magica tardosettecentesco, un son-et-lumière orrorifico che utilizzava suoni, luci, fumi, vapori e perfino scariche elettriche sulle terga degli spettatori per dare il brivido del ritorno dei morti, in particolare quelli della cronaca recente: nel caso, ghigliottinati doc come Luigi XVI e Maria Antonietta. Il 6 marzo, il Louvre proporrà uno spettacolo del genere, e live: morti dal vivo, che paradosso. Intanto la pittura rifà i più gettonati fantasmi letterari: Ingres e Gérard scelgono Ossian, Delacroix disegna Amleto e AnneLouis Girodet de Roucy-Trioson (che nomi, però) mette in scena l’ombra d’Ettore che appare a Enea. E’ forse la scena più celebre dei Troyens , lo smodato kolossal virgiliano di Berlioz; e infatti puntualmente, due metri più in là, FantinLatour disegna il duetto fra il vivo e il morto ispirandosi non a Virgilio, ma all’opera. Poi, una Madame la Mort velata e molto sexy di Gauguin, una Danza di spettri schizzata da Victor Hugo (decisamente meglio come scrittore) e una curiosa raccolta di «foto di fantasmi» fra Otto e Novecento, taroccamenti ingenui, come permettevano le modeste possibilità tecniche dell’epoca. Però la mostra è concepita soprattutto come antipasto all’abbuffata di film. E qui si vedrà che l’horror moderno, con tutti i suoi effetti speciali per lo spavento in 3D, non ha davvero inventato nulla. Il piacere di farsi spaventare spiega tanto Nel paese dei cacciatori morti di Edward Curtis, muto del 1914, quanto Dead Man di Jim Jarmusch, del ‘95. Non mancano i classici, con gli espressionisti che pescano a piene mani nell’immaginario «gotico» delle generazioni precendenti: La carretta fantasma di Sjostrom (1921), Vampyr di Dreyer (1932), Il testamento del dottor Mabuse di Lang (1933, proprio l’anno in cui l’horror stava iniziando davvero). Gli italiani? Sarebbe da non perdere L’ultimo uomo sulla Terra di Ubaldo Ragona, anno 1964, dove Vincent Price, sempre lui, si aggira fra una popolazione di morti viventi che ha preso possesso di una landa metafisica. Il set era all’Eur di Roma e l’idea dell’Eur fascistissima e metafisica come ricettacolo di zombi non è davvero male. Ovviamente non può mancare il giapponese Kiyoshi Kurosawa, classe ‘55, specialista del genere kaidan, in sostanza i fantasmi, e Premio speciale della Giuria a Cannes nel 2008 per Tokyo Sonata . Nella sua retrospettiva, l’altro Kurosawa ha scelto di presentare il film italiano che non t’aspetti, Il mulino delle donne di pietra di Giorgio Ferroni (1960), spiegando di esserne stato folgorato. Italia zombie? Già nel Seicento la regina Cristina di Svezia traslocata a Roma diceva che gli unici italiani vivi erano quelli morti...