YOANI SÁNCHEZ, La Stampa 17/1/2011, pagina 14, 17 gennaio 2011
Il caffè nero vero per i cubani è solo un ricordo - Yoani Sánchez, 35 anni, gestice all’Avana il blog Generacion Y, «ispirato dalla gente nata nei 70, segnata dalle bambole russe, dalle uscite illegali e dalla frustrazione» *** Il mercato dei souvenir nei pressi del porto vibra, pieno di vita
Il caffè nero vero per i cubani è solo un ricordo - Yoani Sánchez, 35 anni, gestice all’Avana il blog Generacion Y, «ispirato dalla gente nata nei 70, segnata dalle bambole russe, dalle uscite illegali e dalla frustrazione» *** Il mercato dei souvenir nei pressi del porto vibra, pieno di vita. È domenica e i turisti osservano le sculture in legno, le borsette di cuoio, gli eleganti umidificatori in mogano per conservare i sigari. In uno dei lati dell’immensa costruzione che un tempo è stato il molo San José, adesso vengono esposte tele, paesaggi fatti con acrilico, ritratti di voluttuose mulatte o disegni di palme altissime contro un cielo azzurro. Richiamano l’attenzione i simboli dell’identità nazionale in ogni quadro: i tamburi in pelle di capretto, la rotonda cupola del Capitolio, il vecchio Chevrolet scassato, la bottiglia di rum, la tavola da domino dove giocano soltanto uomini, i fianchi rotondi di una creola, gli enormi Cohibas dalle foglie lisce e il caffè che diffonde il suo aroma. Il caffè è una componente indispensabile del nostro essere cubani, una bibita oscura e amara - come le nostre radici - che ci ha accompagnato per secoli. Prendere un sorso di caffè alla mattina è sempre stato l’equivalente nazionale della colazione. Poteva mancare qualsiasi cosa, il pane, il burro e persino l’irraggiungibile latte, ma non essere in grado di riscaldare lo stomaco al risveglio con quella bevanda stimolante era il preambolo di una cattiva giornata, il motivo per uscire stressati e di pessimo umore. Non appena si entrava in casa, mettevamo la caffettiera sui fornelli, perché il rituale di offrire un caffè era importante come dare un abbraccio o invitare una persona a fare una visita. In casa nostra, per non venir meno al dovere di ospitalità e al tempo stesso poter bere anche noi al risveglio un po’ di caffè, dovevamo allungare la polvere nerastra con alcuni ingredienti. Di solito usavamo quei chicchi rotondi e verdi che vengono chiamati piselli e che a Cuba conosciamo come chícharos. Non posso ricordare quante ore della mia infanzia ho passato macinando gli anneriti chícharos che mia nonna aveva tostato. Il risultato era uno strano infuso molto lontano dal sapore originale, ma che nonostante tutto sorseggiavamo lentamente. Questa pratica non era solo un accorgimento della mia famiglia, quasi tutti i cubani erano esperti sul modo di allungare le 12 once mensili di caffè che ci toccavano con la tessera del razionamento. La gente faceva scoperte sorprendenti, come aggiungere semi tostati di grano, utilizzare il residuo di una caffettiera come base per la successiva, aggiungendo erbe tritate e tostate che modificavano leggermente il sapore. Alcune settimane fa il Generale Presidente, Raúl Castro, ha annunciato nell’Assemblea Nazionale che cominceranno a mescolare con altri ingredienti la somministrazione sovvenzionata di caffè. Mi ha fatto sorridere sentir affrontare argomenti culinari da un uomo politico, ma soprattutto ha scatenato l’ilarità popolare la comunicazione ufficiale di un comportamento che da molti anni è pratica comune. Non siamo stati soltanto noi cittadini ad aver adulterato per decenni la nostra bevanda nazionale: lo Stato ci ha superato in arguzia senza dichiararlo nell’etichetta del prodotto. Per questo colui che un tempo è stato ministro delle Forze armate, in realtà ci ha soltanto voluto dire che a partire da oggi le etichette non conterranno più la dicitura «caffè puro al 100%». Non si potrà usare neppure l’appellativo «cubano», perché non è un segreto per nessuno che il nostro Paese importa grandi quantità da Brasile e Colombia. Un tempo la produzione nazionale raggiungeva le 60 mila tonnellate annue, oggi appena 6 mila. I motivi sono molti, ma il problema fondamentale è che i contadini sono poco incentivati a raccogliere i preziosi chicchi sulle montagne. Gli infimi salari e le difficili condizioni di vita nelle zone rurali, hanno prodotto l’emigrazione verso le capitali delle varie provincie. Inoltre, il produttore preferisce destinare il suo caffè al mercato nero invece di venderlo alle imprese statali, perché pagano poco e con mesi di ritardo. Il risultato è stato che nelle ultime settimane «il nettare nero degli dei bianchi» - come un tempo lo definivano gli indigeni - ha cominciato a scarseggiare. Le donne di casa hanno dovuto riprendere a tostare chícharos. Non sappiamo se questa bevanda si possa chiamare caffè, ma è certo che nelle pitture che vendono ai turisti viene mostrata come se quel simbolo dell’identità nazionale ancora fosse qui con noi. Una tazza fumante si solleva tra molte tele, ma per fortuna nessun straniero che comprerà il quadro dovrà annusarla e soprattutto non sarà costretto a berne il contenuto. Traduzione di Gordiano Lupi