Giorgio Dell’Arti, La Stampa 16/1/2011, PAGINA 86, 16 gennaio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 66 - VEDIAMOCI DA TROMBETTA
Beh, se le cose stavano così, forse era il momento di chiamare la polizia o l’esercito. Mi metto nei panni del governo o, come dice Costanza, del «Gouvernement». A Genova bruciarono sulla pubblica piazza il secondo numero del «Risorgimento».
Come mai? Conteneva una petizione al re di Napoli, perché concedesse le riforme. Ma al re di Napoli - era il pensiero di costoro - non si fanno appelli. Il re di Napoli si abbatte.
Cavour? Si fregava le mani: «Ma bene, ecco un buon modo per far propaganda al "Risorgimento"». Cavour aveva scritto tra l’altro che il giornale «cercherà di muovere prudente nella via di libertà; adoprandosi acciò la transizione si effettui gradatamente e senza gravi perturbazioni» . Figuriamoci.
Quindi? Ancora Costanza: «Il nuovo governatore di Genova, La Planargia, aveva ricevuto istruzioni che non si procedesse se non per la via della conciliazione. Si rivolse perciò ai membri della Société des modérateurs perché s’impegnassero a placare la furia popolare. Costoro si misero coraggiosamente all’opera e convinsero il popolo a preparare una petizione al Re in cui si chiedesse l’allontanamento dei gesuiti e l’istituzione della Guardia civica. Quest’idea li calmò. La firmarono in ventimila». Vennero a Torino con questa petizione? Cavour scrisse: «Gli ultimi fatti di Genova sono dolorosi per tutti i cittadini perché turbano l’ordine pubblico fondamento di ogni prosperità civile. Non vogliamo opporre un biasimo ai voti espressi dalla popolazione di Genova. La libertà dell’opinione non può aver luogo senza la discussione; e qual discussione sarebbe possibile quando le grida di una moltitudine affollata per le vie e per le piazze di una città dessero la legge dello Stato?» C’era infatti questo fatto: Carlo Alberto, nonostante l’editto della fine d’ottobre, restava un sovrano assoluto. Non poteva concedere nulla sotto la pressione della piazza, perché questo avrebbe diminuito la sua dignità. Per il conte l’idea della petizione genovese era quindi politicamente sbagliata. Il re avrebbe detto «no» a qualunque richiesta: il re, magnanimo, poteva solo graziosamente concedere. Era necessario che il re apparisse generosamente disinteressato, e mai debole. Inoltre: Carlo Alberto poteva morire.
Stava male? Stava molto male. Al rientro da Genova era stato preso da coliche violentissime. La carrozza reale era sfrecciata a tutta velocità tra le due ali di folla plaudente per arrivare a Palazzo il prima possibile. Il sovrano, pallido, era poi apparso barcollante al balcone, tra le solite grida d’entusiasmo. S’era limitato a rispondere alla folla con un fiacco cenno della mano. Tutti vedevano che era sfinito. Non facevano che salassarlo, e non si rimetteva. Lei sa che aveva formidabili problemi di stomaco, era costretto a una dieta tremenda… Ora, che cosa sarebbe accaduto in caso di morte? Camillo pensava: «Abbiamo istituzioni talmente fragili che sono legate alla vita di una persona». Il successore, delle cui intezioni non si aveva la minima idea, avrebbe magari cancellato quel poco che era stato concesso, la libertà di stampa, le elezioni comunali… Stiamo parlando di Vittorio Emanuele II? Sì, il duca di Savoia. Aveva in quel momento 28 anni. A parte le chiacchiere su parecchie marachelle, non se ne sapeva niente. Queste paure non giravano solo nella testa di Cavour. Ci avevano pensato anche gli altri direttori dei giornali. E stava arrivando questa delegazione di Genova, con la famosa petizione in cui si chiedevano guardia civica e cacciata dei gesuiti. Come accoglierla? E come risolvere quel groviglio logico: se la piazza si muove, il re si irrigidisce; se non si muove, forse non succederà niente? Era il 7 gennaio, 7 gennaio 1848. Ho l’impressione che sia una specie di data storica. Appare a un tratto l’opinione pubblica. Per mettersi d’ccordo sull’accoglienza da riservare alla delegazione genovese, i direttori dei giornali si diedero appuntamento da Trombetta in piazza Castello, all’Albergo Europa. Immaginiamo la scena. È probabilmente sera. Alla Filarmonica c’è un concerto in onore di Carlo Alberto. Musiche di Bellini, Mercadante, Donizetti e qualche pezzo del Nabucco , col finale di Fratelli d’Italia . Ma non sono tempi da musica. Ecco i nostri bravi colleghi, intabarrati, il fiato che gli esce dalla bocca, zampettano svelti bucando la neve… Cavour entrò nella sala. Era piena di fumo. C’erano tutti: Sineo, Santa Rosa, Castelli, Brofferio direttore del «Messaggiere», Predari direttore dell’«Antologia italiana», poi Lanza, Galvagno, Vicari, Roberto d’Azeglio. Il conte sedette vicino a Castelli. La discussione era già cominciata. Stava parlando Valerio. Cavour chiese sottovoce a Castelli: «Che si sa?». «Niente - bisbigliò Castelli - dei genovesi ne sono arrivati quattro. Gli altri domattina». «Che sta dicendo?» domandò ancora accennando a Valerio. «Tutte proposte normali. Niente di speciale. Roba più o meno consentita». Quando Valerio finì, disse: «Voglio parlare subito». Stavolta non se ne sarebbero andati. Si fece silenzio.