MARCO ALFIERI, La Stampa 16/1/2011, pagina 7, 16 gennaio 2011
L’obiettivo è più produttività - Il sì di Mirafiori può diventare l’occasione per ripensare le relazioni industriali e rilanciare la nostra economia», prevede Roberto Perotti, economista di scuola anglosassone della Bocconi
L’obiettivo è più produttività - Il sì di Mirafiori può diventare l’occasione per ripensare le relazioni industriali e rilanciare la nostra economia», prevede Roberto Perotti, economista di scuola anglosassone della Bocconi. Evitando di farne solamente la bandierina di Fiat o lo scalpo identitario di una Fiom che se l’è giocata all’ultimo voto. Per provarci, allargando lo spettro a un sistema manifatturiero uscito sfilacciato dalla crisi mondiale, occorre immergersi nel cuore di tenebra: la scarsa produttività della nostra economia, misurata sulla qualità della manodopera, i progressi tecnologici e le nuove forme di organizzazione produttiva. Cosa c’è all’origine di questa caduta e quindi della capacità di competere? Certamente molte diseconomie (bolletta energetica, gap infrastrutturale, burocrazia, fisco e sistema formativo antiquato) altrimenti, Mirafiori o no, non saremmo il fanalino di coda di un continente già lumaca rispetto al boom dei Paesi Bric. Ma in cima a tutto c’è proprio il demone della produttività. Secondo il professor Patrizio Bianchi, già direttore della rivista prodiana l’Industria, «i prossimi mesi saranno decisivi per capire le mosse di Fiat in Italia: strategia produttiva di prezzo o mantenimento in loco della progettazione delle piattaforme? A cascata - prosegue Bianchi - gli effetti si spalmeranno su tutto l’indotto. Perché lo sviluppo di prodotto non è indifferente alla produttività, anzi». Per Ernesto Felli e Giovanni Tria dell’università di Tor Vergata, la gelata italiana viene da lontano. «Nel decennio 1985-95 - scrivono i due economisti - la produttività del lavoro cresce a un tasso medio annuo dell’1,9% contro l’1,8% della Germania». Tra il ’95 e il 2000, in piena Clintonomics, «il tasso comincia a calare tenendosi in media con Usa e Ue». Dopodiché il diluvio, in coincidenza con l’inizio del secolo cinese. Nell’ultimo decennio siamo sempre l’ultimo vagone di Eurolandia, ogni crisi pesa il doppio sotto le Alpi. Basta un dato: tra il 1998 e il 2008 l’economia italiana perde 13 punti di produttività sulla Germania. Per questo la competitività delle regole sulla contrattazione e nell’organizzazione del lavoro diventano centrali nell’incremento di produttività. Per il Centro studi di Confindustria, oggi la contrattazione aziendale riguarda il 31,9% delle imprese italiane, a copertura del 68,9% del totale addetti. Splittando il dato per classi dimensionali: viene praticata nel 18% delle imprese «micro» (sotto i 15 addetti), in pratica un lavoratore su cinque, nel 45% delle aziende tra i 16 e i 99 occupati (copre un lavoratore su due), e nel 75% delle imprese con più di 100 addetti. In assoluto non si tratta di un numero basso. Peccato che se misuriamo la quota di salario trattato direttamente in fabbrica, la percentuale diventa risibile (tra il 5 e il 7% della retribuzione annua lorda). In Germania, dove i salari sono molto più ricchi dei nostri, può arrivare a più del 50 per cento. Osservandolo dal lato delle relazioni sindacali o dell’efficienza industriale, dunque, il tema della contrattazione si è fatto urgente. Lo conferma un recente ribaltamento. «Nel 1993 - ha spiegato poco tempo fa il presidente del Cnel, Antonio Marzano - la contrattazione viene introdotta per redistribuire ai lavoratori, monetizzandole, parti della produttività in eccesso» accumulata negli Anni 80. «Adesso, invece, serve a stimolare, attraverso riorganizzazioni interne, formazione e partecipazione, la produttività». Cioè l’eterno demone inafferrabile. Dopo Mirafiori, insomma, derogare dal contratto nazionale non sarà più tabù. Non sono i falchi di Federmeccanica a rivendicarlo. «Già la Commissione Giugni del ’97, nata per verificare l’accordo tra le parti sociali del ’93 - ha ricordato sul Foglio l’ex leader cislino Franco Marini - suggeriva la strada di puntare sulla contrattazione territoriale e aziendale all’interno di una cornice nazionale molto più leggera di quella attuale». La faccenda è più complessa di chi vorrebbe tagliarla con l’accetta. Tanto più che la bandiera della produttività le nostre poche grandi imprese l’hanno persa a vantaggio del Quarto capitalismo delle medie imprese (da 13 a 290 milioni di fatturato) censite da Unioncamere-Mediobanca. Quattromilacinquecento vascelli corsari, un piede sul territorio un altro nel mondo, che macinano performance tedesche (per profitti, investimenti esteri e innovazione di prodotto e processo). Cerniera tra le 300 mila piccole, le 600 medio-grandi (ricavi fino a 3 miliardi) e le pochissime multinazionali. «La situazione che ci consegna la crisi è variegata», riassume Bianchi. «La nostra punta industriale avanzata fatica a trovare manodopera specializzata e investimenti per continuare a competere su standard internazionali; ma il corpaccione galleggia, alle prese con i dilemmi della Cig. Ovvio che situazioni così differenti vanno trattate caso per caso in termini di contrattazione e relazioni industriali». Un’altra volta, è l’organizzazione del lavoro che diventa fattore essenziale della produttività.