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 2011  gennaio 16 Domenica calendario

I tormenti segreti (e un po’ zen) del poeta laureato in pessimismo - Durante la tournée mondia­le del 1972, Leonard Cohen si esibì alla Royal Albert Hall di Londra in un silenzio quasi do­loroso nella sua intensità

I tormenti segreti (e un po’ zen) del poeta laureato in pessimismo - Durante la tournée mondia­le del 1972, Leonard Cohen si esibì alla Royal Albert Hall di Londra in un silenzio quasi do­loroso nella sua intensità. «Ba­stava un colpo di tosse per sen­tirsi colpevole », scrisse un criti­co. Alla fine i fan lo chiamarono a gran voce per un bis ma lui riapparve annunciando: «Non ho più nessuna canzone den­tro » e se ne andò. L’episodio,narrato nella bio­grafia Una vita di Leonard Cohen (Giunti) di Ira B. Nadel, rende lo spirito di un uomo ve­ro. Vero perché contradditto­rio, incapace di distinguere tra realtà e azzardo visionario, ani­mato nell’arte e nella vita dalla disperazione.Fu definito«poe­ta laureato in pessimismo » e iro­nicamente ricevette una laurea honoris causa perché divenuto per molti «simbolo dell’ango­scia, dell’alienazione, del dub­bio », ma lui spesso ripete: «Ho sempre pensato di avere un’anima comica». Ha vissuto ricercando la pura spiritualità e al tempo stesso la bellezza - so­prattutto femminile- che nono­s­tante le mille conquiste è sem­pre evaporata dalle sue mani non appena la sfiorasse. Una tempo arrivò a dire: «La realtà è una donna trasformata dall’or­gasmo. Tutto il resto è finzione. Ogni donna che incontro mi stende». Tanti rapporti conflit­tuali (la sua Suzanne, Joni Mi­tchell e mille altre) e uno, mor­t­o sul nascere ma non meno si­gnificativo, per Nico, «la perfet­ta regina ariana dei ghiacci » lan­ciata da Warhol come cantante dei Velvet Underground. Nel ’66 Cohen le moriva dietro, si consolava sulla spalla di Lou Re­ed, e le conseguenze di questa delusione furono profonde sul­la sua arte: «Pensieri disperati su Nico. Chitarra morta, voce morta, melodie vecchie e fal­se », scrisse sul suo diario. La sua spiritualità è comples­sa (nasce da quando, ragazzo, imparò a ipnotizzare gli amici) e confusa, se è vero che da sem­pre «nuota nella radice ebrai­ca » ma per anni ha seguito il monaco zen Seasaky Roshi, tra­sferendosi poi nel suo isolato monastero. Il primo precetto che ricevette da un amico sulla posizione del loto fu: «Sentirai molto male ma non muoverti, sarebbe peggio». Spesso fuggì a gambe levate da quel posto pie­no di neve e fu fotografato ad Acapulco con taglio di capelli buddista e sigaro in mano. Ma poi la prese sul serio: «Lo Zen è ciò che non c’è;non c’èculto in forma di preghiera, non ci sono dogmi né teologia. Spesso non capisco neppure di cosa parli. Ma ti dà un posto dove ci si può sedere e pensare». Per Cohen l’arte è urgenza del racconto; non a caso nasce scrittore, il che non significa sacrificare la sacralità della scrittura alla sem­plicità di suoni folk. È un atteg­giamento che nasce dalle sue fe­conde irrequietezze e dalla tra­dizione ebraica dell’unità fra legge scritta e legge orale. «Ogni mio libro e ogni mia can­zone rappresentano un diver­so tipo di crisi». Dichiarazione che spiega brani come Bird On a Wire (l’inno scritto a Idra, in Grecia, mentre guarda gli uccel­li ap­poggiarsi ai fili della rete te­lefonica da poco approntata), Sisters of Mercy , Suzanne . Nel 1966 dunque Cohen co­minciò ad accarezzare l’idea di fare il cantautore ispirandosi a Dylan. I due s’incontrarono la prima volta nel ’69.Cohen lo de­finì «un Picasso», mentre Dy­lan r­ispose che una delle perso­ne in cui gli sarebbe piaciuto tra­sformarsi, oltre a Roy Acuff e Walter Matthau, era Cohen. Ne­gli ambienti colti di Montreal, quando un suo amico professo­re annunciò agli studenti: «Sa­pete che Leonard farà il cantau­tore? » questi risposero: «Ma se non sa cantare!». Il suo primo concerto importante, alla Town Hall di New York, partì malissimo. Dopo poche battu­te di Suzanne fuggì dal palco un po’ per un attacco di panico,un po’ per la scordatura della chi­tarra, ma il pubblico lo richia­mò a gran voce. Il primo album Songs of L.C. fu una lotta con il produttore che voleva arrangia­re riccamente le canzoni. Cohen, che curò il missaggio, si vendicò scrivendo: «Qualcuno presentò gli arrangiamenti alle canzoni. Ne nacque un certo af­fetto reciproco ma a causa di una sanguinosa faida venne lo­ro impedito di sposarsi». «Non ho mai percepito in me dei cambiamenti», dice mali­zioso, perché in lui le contraddi­zioni si ricompongono. In musi­ca dapprima è un neo- Burrou­ghs con un background che va dalla Bibbia ai beatniks (album come Songs From a Room ); poi cinico cronista di spirito e mate­ria ( I’m Your Man ); negli anni ’90 voce della disperazione poli­tica ( The Future ) e oggi cantau­tore in Borsalino e abito gessa­to grigio che racconta la verità ma vive sempre nel dubbio, e soprattutto sa «che la vita è più facile quando non ti aspetti di vincere». Cittadino del mondo, si avventurò a Cuba per vedere Castro ed ebbe un rapporto pri­vilegiato con l’Italia, dove in­co­ntrò persino Zeffirelli e Bern­stein per scrivere la colonna so­nora di Fratello sole, sorella lu­na. All’Isola di Wight nel ’70, con capelli lunghi, barba incol­ta e sahariana, fu il ribelle che incitò 600mila hippie ad accen­dere un fiammifero per illumi­nare la notte (rituale che in se­guito sarebbe diventato un must ai concerti) e, osservate le poche fiammelle sibilò: «È una grande nazione, ma ancora de­bole ». All’epoca qualcuno gli chiese: «Sarai il Mosè di qualcu­no? ».«Non so se sarò mai il Mo­sè di qualcuno- replicò- ma po­trei essere il loro Leonard », e ba­sta questa frase a definirlo a pie­no titolo «profeta».