Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 15/01/2011, 15 gennaio 2011
L’ITALIA, LA LIBIA E IL NOSTRO ARABISMO - A
proposito della Guerra di Libia, vale la pena di ricordare un articolo molto interessante che l’arabista milanese Eugenio Griffini scrisse proprio sulle pagine del Corriere il 27 novembre 1911. Sottolineando «le superbe vittorie civili vinte con la scienza alleata alla baionetta nella Francia d’oltre mare» , egli sottolineava la necessità di diffondere l’insegnamento dell’arabo (soprattutto quello parlato) e del berbero, per poter veramente conoscere a fondo i Paesi conquistati. Poiché «l’occupazione di una regione musulmana si intraprende coll’armi alla mano, ma sarà compiuta solo quando sarà nostra tutta quella che è la mentalità indigena, lingua, dialetti, letteratura, religione, superstizioni, usi, costumi, leggende, onomastica, toponomastica, e via dicendo» . Il principale difetto della colonizzazione italiana della Libia, rispetto a quella della Francia negli altri Paesi magrebini, fu proprio la mancanza di un’adeguata formazione di lingua e cultura nordafricana tra il personale che venne inviato nella colonia. «Potremo sempre affidarci ad interpreti e traduttori indigeni? Non saremo allora mai in casa nostra» , profetizzava allora il Griffini.
Vermondo Brugnatelli
vermondo.brugnatelli@unimib. it
Caro Brugnatelli, negli anni che precedettero e seguirono la guerra del 1911, la Libia suscitò nell’opinione pubblica italiana molto interesse. Furono pubblicati libri di viaggio, trattati di geografia economica, rievocazioni storiche e persino studi sulla Senussia, la confraternita religiosa che fu l’anima della resistenza anti-italiana in Cirenaica e dette alla Libia, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il suo primo e unico re. Nel 1912, ad esempio, l’ufficio coloniale del comando del corpo di stato maggiore pubblicò un libro intitolato «L’Islamismo e la Confraternita dei Senussi» scritto dal capitano Bourbon del Monte di Santa Maria. Ma lo studio dell’arabo e del persiano restò generalmente confinato nella piccola cerchia dei pochi grandi orientalisti che distinsero la cultura italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento: Leone Caetani, Giorgio Levi della Vida, Francesco Gabrieli, Umberto Rizzitano, Alessandro Bausani e i loro allievi. Nel 1921 apparve una bella rivista, L’Oriente Moderno, fondata da Carlo Alfonso Nallino, ma l’arabismo italiano non ebbe mai il respiro e le dimensioni di quello francese, inglese e tedesco. Credo che le cause della differenza vadano ricercate nella scarsa curiosità dei governi italiani per il mondo arabo e nella miopia con cui il regime fascista affrontò il problema della educazione e della formazione della popolazione locale. Mentre i francesi creavano scuole e accoglievano studenti algerini, tunisini e marocchini nelle loro università, l’Italia fece assai poco per dialogare culturalmente con la sua colonia e per elevare il livello sociale dei suoi nuovi sudditi. Mussolini brandì nell’aria, durante una visita a Tripoli, la spada dell’Islam e Radio Bari trasmise per parecchi anni notiziari in arabo per i Paesi del Levante. Ma gli obiettivi di questo interesse erano strettamente politici. Ciò che maggiormente contava per noi in Libia era il suo passato romano. Le rovine di Sabratha e di Leptis Magna erano, agli occhi del regime, molto più importanti dell’occasione che la Libia avrebbe potuto rappresentare per i nostri studi arabi e islamici. Siamo immersi nel Mediterraneo, ma conosciamo la cultura dell’altra sponda, paradossalmente, molto meno della Francia e di Paesi non mediterranei come la Gran Bretagna e la Germania.
Sergio Romano