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 2011  gennaio 16 Domenica calendario

MILLE METRI SOPRA IL CIELO - SAN GREGORIO MATESE

(Caserta)
pochi tornanti sopra San Gregorio Matese il cielo si oscura all´improvviso; da quota mille tracima un´onda di marea, nubi grasse in corsa dal Molise, e la slavina precipita sul Volturno, la "terra di lavoro" tra Venafro e Benevento, orti e bufale a vista d´occhio. La nebbia mi inghiotte, fermo la macchina sull´orlo di un burrone, in un silenzio assoluto, aeronautico. Potrei essere in Afghanistan, sui monti lunari di Erzegovina. Un luogo da deltaplani, un balcone senza paracarri, senza anima viva. Tiro fuori la carta, cerco di orientarmi. Niente. Mi sono perso, ho passato la linea d´ombra. E comincia uno smarrimento tutto appenninico, perché solo in Appennino è possibile perdersi così.
«Guardate che fermarsi qui è pericoloso assai!».
Mi spavento, il cellulare mi cade di mano. La testa di un uomo è entrata dal finestrino aperto e sta a quaranta centimetri dalla mia. È arrivato controvento, senza che lo sentissi, dal curvone a picco sul nulla come un girone d´Inferno, quello di Dante illustrato da Gustavo Doré. Non sorride. È un duro coperto di rughe, maschera greca di età indefinita, abbronzato come una guida nepalese. Ha passamontagna e bastone in mano, una mano enorme, e intorno a lui sento il calpestìo del gregge. Spaesamento totale. Potrei essere in qualsiasi montagna del mondo, Karakorum, Anatolia, Ande peruviane, Rodopi, Patagonia. L´unica certezza è altimetrica, sono oltre, sopra il mio mondo. E forse anche in un altro tempo.
Esco fuori, parliamo un po´. Il pastore spiega la strada, mi consiglia dove sostare a mangiar bene. Mi parla del trampolino per deltaplani e del castagno più grande del mondo, tre metri di diametro, da qualche parte in un posto chiamato «Reale». Gli sta accanto un pastore abruzzese che sorveglia ogni mia mossa, mentre un altro cane, più piccolo, tiene insieme il gregge. «Scrivete che qualcuno ha buttato rifiuti tossici quassù sul lago, io li ho visti i camion passare». Quando riparte gli dico una frase che ho imparato nell´Ager Campanus, fertile inferno di bufale, camorra e brava gente. «T´accumpagno c´o pensiero». E lui se ne va, col passo millenario di Abramo, corto e regolare; la nebbia lo inghiotte, per un bel po´ sento i campanacci, poi più niente.
Solo allora capisco di avere incontrato un sannita. Uno di quei guerrieri indomabili che duemila anni fa, poco lontano a sudest, fecero passare i soldati romani sotto le Forche Caudine. Un mondo pastorale, da sempre antagonista della Dominante. Popoli padroni di una viabilità tratturale alternativa alle strade consolari, fatte per le legioni in armi. Una rete partigiana di quota attraverso la quale passò impunemente Annibale, senza essere mai sconfitto in campo aperto, nei sedici anni della sua presenza in Appennino. Sono sulla roccaforte di quel mondo: una sierra, come quelle che vedi in terra d´Aragona sotto i Pirenei. Un´acropoli, una fortezza naturale, simile all´altopiano di Asiago, ma più tenebrosa. Il Matese.
Si aprono squarci di sole. Inconfondibile, isolato come una portaerei, il mio bastione naviga nelle nubi e nel vento. Napoli è lontanissima, Caserta e il mondo di Gomorra pure. Qui è altra lingua, altre facce, altra toponomastica, altri animali totemici. Hirpus e Luk, il lupo che diede il nome a Irpini e Lucani; Picus, il picchio, che battezzò i Piceni. I soprannomi sono spesso animaleschi: "u´ Passero", "u´ Fall´co", e naturalmente "u´ Lupo". Visi larghi di montagna, corporature di uomini-fauni, centauri. Donne forti, padrone assolute del fuoco domestico. Un mondo che fu ricco di mandrie, legna, lana, frutta e acqua, un monumento alla ricchezza antica d´Appennino, con i suoi trenta milioni di pecore e i terreni di quota che non franavano grazie al pascolo.
Un´economia verticale, transumante, che non consumava il territorio e oggi è massacrata dai divieti di una burocrazia connivente con l´imbroglio della grande distribuzione. Una topografia arcana di santuari e divinità pagane. Mi basterà scendere a Saepinum, sulla statale Isernia-Benevento, per capire la ricchezza di quel mondo. Un´archeologia di pietre che belano. Anfiteatri, alberghi, punti di ristoro bimillenari dove i pastori a migliaia sostavano nel trasferimento. E, più in là, in Molise, Pietrabbondante, la capitale dei pastori confederati, affacciata sull´infinito orizzonte. Non esiste nulla di più italico. La cosa più antitetica a Paestum che si possa immaginare.
A Gallo Matese - enclave bulgara smarrita tra i monti - mi mettono in mano un libro. Quota mille, fotografie di Francesco Fossa. È la Spoon River per immagini di un mondo vivente. Paesaggi e ritratti. Ritrovo la ventosa malinconia dell´Italia di mezzo, nei mesi fuori-stagione; la povertà degli interni, le facce di un mondo arroccato che si rifiuta di rotolare in basso, come tutto in Italia, acque, frane, uomini e animali. I miei bravi highlanders: pastori intabarrati sotto ombrelli enormi, donne forti in abito nero, adulti dalle barbe incolte, giovani pochissimi, ritratti in posa con zappe, pane, formaggio, cavalli, muli, Padre Pio. L´epopea di una resistenza misconosciuta, lo spazio di fuga dal pensiero unico della società dello spreco e del rumore.
A San Gregorio i pastori sono ancora tanti, undicimila. E quando arriva il tempo della tosatura qui non c´è bisogno di chiamare macedoni o neozelandesi a sbrigare il lavoro. «Facciamo tutto in casa, è così da sempre», racconta Cristina Ferrito, vedova con quattro figli a quarantasette anni. La ritrovo sul libro di Fossa: le foto dell´uomo e del santo sono davanti a un letto di semi di girasole, messi a seccare come in un presepe. Dei figli, Antonietta e Giovanni accudiscono le bestie, lavorano quaranta chili di formaggio alla settimana; poi c´è Nunzia e la piccola Elvia che ogni mattina si alza alle cinque per prendere il sentiero fino alla fermata del bus che la porta all´istituto industriale di Piedimonte.
Mi traversano la strada una decina di muli, portati con passo guerrigliero da una donna di nome Carmela. Sono carichi di legna e vanno alle ultime carbonaie d´Italia. Il mulo è l´unico animale capace di raggiungere i boschi da ripulire, in alto sul Monte Janara, il Postonico, il Mutria. Cime tagliate da canaloni, che in autunno diventano letti di foglie dove si sprofonda alla cintola. Loredana Perrone ha fatto l´insegnante nelle Langhe per dieci anni, amando quelle terre del Piemonte; ma solo nel suo Matese rivela di sentirsi bene veramente. «Quello che per altri è isolamento - dice - per me è soltanto serenità». Ed è tornata, a Letino, il comune più alto della Campania, a milleduecento metri. Uno dei pochi posti dove i giovani non scappano, ma anzi ritornano.
Piedimonte Matese, zampillar di fontane. Sosta al bar con Rosario Di Lello e Vincenzo Rapa, a parlar di briganti negli anni post-unitari. I due mi raccontano la Pasqua di Sangue, la storia di un possidente, Don Salvatore, il quale violenta una ragazza che muore abortendo, il giorno di pasqua. La leggendaria brigantessa del Matese, Maria Maddalena De Lellis, il cui fucile è in bacheca a Piedimonte, si accorda col brigante Santannello, suo amante, per vendicare la poveretta: cattura don Salvatore, lo evira e lo brucia vivo. Anni terribili, di soprusi, giustizie sommarie, fucilazioni. Come a Pontelandolfo, quattrocento morti di mano bersagliera, come rappresaglia a una strage di soldati. Anni, anche, di utopie, con la prima e unica repubblica anarchica d´Italia, proclamata nel 1876 e resistita solo due giorni all´arrivo dei carabinieri. Sanniti, rivoltosi, briganti, pastori, utopisti, soldati annibalici, escursionisti innamorati dell´Appennino. Mille storie, ma un solo, temporalesco luogo rifugio.