Varie, 17 gennaio 2011
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Djian Philippe
• Parigi (Francia) 6 giugno 1949. Scrittore • «[...] Erede autoproclamato della Beat Generation [...] che non ama i giornalisti né parlare di sé, parigino che odia Parigi, sempre descritto con chiodo e stivali di cuoio [...] “[...] Parigi mi ha stancato. Qui si rischia la fossilizzazione, [...] Certe volte non capisco cosa faccio qui. Ho vissuto negli Stati Uniti, in Italia a Firenze, in Svizzera. Sono nato a Parigi, ma in questa città non ci sono le mie radici. Ho bisogno di mobilità. Fermarmi in un posto non sarebbe bene per il lavoro che faccio”. A imporre il suo stile sugli impolverati scaffali della letteratura francese ha impiegato anni: linguaggio troppo diretto, il suo, per i custodi della lingua dell’Académie française. Lo stile troppo acerbo, la prosa oltraggiosamente attuale, i contenuti troppo sinceri ed efficaci. Troppo lontano, Djian, dalla letteratura tradizionale francese, dallo stile pomposo di contemporanei e predecessori, dalle frasi interminabili alla Proust. Lui si gloria: “Se la gente non legge più libri, una ragione c’è: certi libri sono fatti per rispondere solo a esigenze estetiche. Non aiutano a vivere”. A inizio anni ’80 Philippe Djian era un Ufo. Un oggetto letterario non identificato. Sì, aveva amici in Gallimard, dove ha anche lavorato come magazziniere per anni prima di diventare, nel ’93, una firma della casa. Ma non riuscì a far pubblicare lì le sue prime novelle “50 contro 1”, scritte di notte, nelle lunghe ore di permanenza in un casello autostradale. Era l’epoca dei lavoretti per mangiare e viaggiare, per tirar su due soldi e partire per conoscere il mondo: docker, impiegato di banca, giornalista per “Détective” e “Magazine Littéraire”, per cui intervistò la vedova di Céline. Era l’epoca delle letture e dell’apprendistato. “Costruendo muri di pietre con mio fratello, ho imparato come si costruisce un libro: pietra dopo pietra, parola dopo parola, pensando che ogni frase potrebbe essere l’ultima, che tutto il mondo si può tenere in una frase. Montando i tubi per l’acqua ho imparato la fluidità della frase. Il testo deve scorrere”. Si nutriva di musica rock, notti bianche e letteratura americana. “Mi pensavo come un nipotino di Charles Bukowski o Jack Kerouac”. Riferimenti? “Jerome David Salinger. Il più grande scrittore francese: Louis-Ferdinand Céline. Il poeta invadente: Blaise Cendrars. Il mago dell’organizzazione delle parole: Jack Kerouac. Il benedetto Herman Melville di Moby Dick, dai personaggi quasi vivi. Henry Miller, forza della natura. L’incantatore William Faulkner: conduce il lettore in uno stato quasi ipnotico. Ernest Hemingway de ‘Il vecchio e il mare’, per la bellezza della scrittura e la secchezza delle frasi. Richard Brautigan, capace di scatenare una tragedia greca in un ditale. Raymond Carver: scrive come un dio, sintesi d’avorio”. A metà degli anni Ottanta diventa famoso. Con “37,2 al mattino”, da cui viene tratto il film con Beatrice Dalle “Betty Blue” [...] Da allora preferisce vivere nascosto: “Quando mi chiedono, lei è Philippe Djian?, rispondo di no. Troppa gente vuole incontrarmi, darmi la mano. Troppa ipocrisia, megalomania, cinismo”. Il mondo di Djian è famigliare. “La famiglia è il primo cerchio della società. Un prisma per capire com’è fatto il mondo, luogo in cui si scatenano gelosie, passioni, desideri, amore, seduzione, manipolazione, prevaricazione, invidia”. Tutto in una bohème di lusso, dai dialoghi serrati: amori complicati, sbornie, eccessi, droga, disintossicazioni, sigarette. Ma anche lavori miseri, malinconia, squallide cene in cucine dai lavelli pieni di piatti sporchi. Per molti scrittori francesi, difensori della lingua di Voltaire, Philippe Djian è imperdonabile. Per Philippe Djian, invece, imperdonabili lo siamo tutti. [...] “Se volete idee comprate giornali: sono pieni di idee”. La citazione è di Céline. Diceva anche che le idee sono volgari. “La letteratura è un’altra cosa, per me. Una volta ho detto: ‘Quando sono malato non vado dal medico, vado in libreria’. Ne hanno fatto un manifesto, i librai erano contenti. Cerco libri come ‘Lolita’ di Vladimir Nabokov. Mi piace la sensazione di venir fregato dalla bellezza della frase ed essere costretto a rileggere. I miei personaggi sono parti di me. Non sono ispirati dalle storie o dalla vita della gente che incontro, sono persone che avrei voluto essere, sia i buoni che i cattivi. Ma non mi ispiro a fatti e personaggi reali, preferisco le serie tv per i miei romanzi, come ho fatto nei sei tomi di ‘Doggy Bag’. Non sono un filosofo né uno storico, non ho nulla da difendere: l’unica cosa che mi interessa è la letteratura. Sta morendo, perché gli scrittori usano una scrittura inadatta alla vita, invece si deve dare al lettore la sensazione della lingua parlata. Esprimere la vibrazione del mondo in cui viviamo. Il cineasta giapponese Ozu prende la camera, cambia l’asse, l’abbassa, filma, e grazie a quel gesto raggiunge altri significati. Succede in letteratura: lo scrittore prende il lettore e ne torce il pensiero. Non sempre è piacevole. Ma è utile”» (Giacomo Leso, “L’espresso” 28/1/2010).