Mimmo Càndito, La Stampa 15/01/2011, 15 gennaio 2011
E’ un’assenza temporanea», dicono, naturalmente, i suoi sodali, ma lui, il gen. Zine El-Abidine Ben Ali, difficilmente lo rivedremo a Tunisi
E’ un’assenza temporanea», dicono, naturalmente, i suoi sodali, ma lui, il gen. Zine El-Abidine Ben Ali, difficilmente lo rivedremo a Tunisi. Molto difficilmente, perché la sua storia di 23 anni di potere assoluto finisce qui. Non amava la divisa, il generale, benché militare lo fosse fin dentro l’anima, con la costruzione d’una carriera passata attraverso le accademie d’armi di Francia e Usa. Ma i suoi interessi si erano concentrati da subito sui servizi di sicurezza, e tra spie e dossier è raro vedere uniformi militari. E Ben Alì - presidente per 5 volte, sempre con maggioranze vicine al 100 per cento dei voti - sotto i suoi gessati alla Caraceni, il sorriso smagliante, e gli occhiali da funzionario di polizia, metteva in pratica con successo quanto aveva appreso nelle aule del Senior Intelligence School del Maryland. Così con lui la Tunisia è finita al 144mo posto nell’Indice della democrazia dell’«Economist», e «Reporters sans frontières» ha messo il suo regime al 143.mo posto, su 173, nella classifica della libertà di stampa. Un mondo di spie, insomma, di affari, e di galere e torture, nel quale il generale dalla faccia pulita si muoveva con la naturalezza di chi sta a casa propria, anche perché, poi, la sua stessa presa del potere era nata da un complotto internazionale di spioni, dove gli agenti di Tunisi avevano avuto una mano d’aiuto dal Sismi. Fino alla sera di quel 7 novembre dell’87, a comandare a Tunisi era stato il vecchio presidente Bourguiba, fondatore dello Stato indipendente dal vecchio dominio francese. Ma, nato padre della patria, il leader del Neo-Destour con il passare degli anni era diventato un nonno della patria, con tutti i tratti tipici della demenza senile. Lo sapevano tutti, in quel tempo, a Tunisi, e i reporter che passavamo per i viali alberati della città a raccontare la fine del patriarca dovevamo raccogliere informazioni da tutt’altre parti che nel vecchio palazzo presidenziale, dove un fantasma dormiva di giorno e, a sentire i cortigiani, non aveva più d’un paio d’ore di lucidità quotidiana. Solo che, all’ombra di questa rarefatta presidenza, si combatteva intanto una lotta di potere che non soltanto metteva assieme traffici e malaffari rivestiti di abiti ministeriali ma, anche, vedeva farsi largo una campagna di mobilitazione fondamentalista che rischiava di mettere in crisi l’impianto laico che Borguiba aveva voluto imporre al suo paese. E il golpe nasce in questo tormentato intreccio di politica e di interessi strategici, con una tecnica che ricordava certe pratiche di Laurenti Beria: Ben Alì, confortato dagli uomini che il suo ruolo di primo ministro e le sue alleanze di capospione hanno messo ai posti giusti, nella notte tra il 6 e il 7 novembre porta a palazzo un manipolo di professoroni in camice bianco che dichiarano «incapace di intendere e di volere» il semiaddormentato Bourguiba. Annuncio dello stato di emergenza, l’esercito che prende il controllo della tv e delle gendarmerie, e il golpe bianco è fatto. Ma accadde più tardi, nell’ottobre del ‘99, che a Roma, di fronte alla Commissione Stragi, il generale Fulvio Martini, che per 7 anni è stato capo del Sismi sotto i governi Craxi, Fanfani, Goria, e Andreotti, e di storie sporche ha pieni i suoi armadi, riveli che «negli anni 1985-1987 fummo noi Sismi a organizzare un colpo di Stato in Tunisia, mettendo il generale Ben Alì al posto di Bourguiba». C’era aria di crisi, laggiù, spiega Martini, con grossi rischi di dare spazio al fondamentalismo in tutto il Maghreb; noi italiani avevamo interessi seri, e il capo del governo Craxi e il ministro degli Esteri Andreotti ci diedero direttive precise. «Ci fu il cambio di potere senza spargere una goccia di sangue» e, un mese dopo il golpe bianco, il presidente dell’Eni, il socialista Reviglio, viaggiava a Tunisi accompagnato da Craxi, a firmare un importante accordo industriale e finanziario. (Hammamet e il rifugio di Craxi in esilio arriveranno qualche anno dopo.) Tutta la presidenza di Ben Alì trascorrerà tra quest’irresistibile attrazione per gli affari e però, contemporaneamente, l’ambizione di fare della Tunisia un paese moderno, aperto agli investimenti, spinto a sganciarsi dal sottosviluppo. Ma la corruzione, estesa, endemica, pilotata dallo stesso Palazzo, segna ogni pagina - anche la più marginale - del processo di modernizzazione, e alla testa pare porsi con le sue sfrenate ambizioni la stessa Presidenta, la moglie Leila, inseguita oggi dall’odio di tutto il paese in festa, che fa di lei la «Padrina» della mafia che dai saloni del Palazzo comandava tangenti e flussi sporchi di denaro illegale. All’estero, il generale dal viso pulito e la Padrina ora aspettano soltanto che li si dimentichi. Ma a Tunisi, in un paese dove la speranza dev’essere reinventata, i giudici preparano i loro incartamenti d’accusa. Sono storie senza geografia.