Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 15/01/2011, 15 gennaio 2011
I l rischio di perdere il posto in un’economia in affanno è uno di quelli che la maggioranza delle persone non vuol correre
I l rischio di perdere il posto in un’economia in affanno è uno di quelli che la maggioranza delle persone non vuol correre. Per questo, magari senza entusiasmo, Mirafiori stando alle previsioni della vigilia si avvierebbe ad approvare l’accordo firmato da tutti i sindacati tranne la Fiom-Cgil (anche se nella notte la situazione era ancora molto incerta). Si può aprire ora una fase diversa che esige risultati tangibili da quanti ritengono quello di ieri l’esordio di una nuova Italia: la Fiat, i sindacati moderati e il governo. Ma anche una fase che suggerisce un ripensamento alla sinistra e al sindacalismo radicale rimasti in minoranza nel loro teorico insediamento sociale. Lungi dall’essere una sconfitta della democrazia, il referendum torinese ne rappresenta un passaggio aspro, sofferto e partecipato. Capita che molti votino turandosi il naso nelle situazioni difficili, e questa della Fiat lo è in sommo grado, se solo si guarda al crollo delle vendite in Europa nel 2010, più del triplo della concorrenza; se solo si pensa a come la bandiera della modernità sia ormai passata da Mirafiori al Quarto capitalismo delle multinazionali tascabili. Parlare di attentato alla Costituzione quando accordi analoghi sono stati firmati dalla stessa Fiom in grandi aziende piemontesi come la Sandretto è pura polemica. Come diritto individuale lo sciopero non è toccato. Rinunciare a proclamarlo per un periodo è una scelta contrattuale dei sindacati firmatari, magari discutibile, ma non un tradimento di classe, visti i precedenti in Italia e all’estero. Evocare gli anni 50, quando la Fiat licenziava gli attivisti «rossi» che sognavano l’Unione Sovietica in piena Guerra fredda, non aiuta a capire che cosa accade nel 2011 e che cosa può fare l’Italia per rigovernare la globalizzazione che si risolve in guadagni stellari per i pochi manager e banchieri che la sanno cavalcare e in sudore crescente a magra paga oraria invariata per chi sta alla catena di montaggio, indebolito dalla concorrenza del serbo o del polacco. L’esclusione della Fiom dalla fabbrica, possibile se questa non apporrà almeno una firma tecnica all’intesa, dipende da leggi e referendum degli anni 90 ai quali la stessa Fiom aveva partecipato. Ma non sarebbe saggio farsene scudo per non farla rientrare. Meglio sarà risolvere i problemi della rappresentanza e dell’esercizio in forma collettiva del diritto individuale di sciopero attuando gli articoli 39 e 40 della Costituzione. Ma la Carta ha anche un altro articolo disatteso, il 46, che sancisce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’impresa e che, come tale, può richiamare il regime tedesco della codecisione più che il salario di produttività. Per questa via il sindacato sarebbe meno movimento e più istituzione. Avrebbe più potere, ma anche più responsabilità. In Germania, in un consiglio di sorveglianza, Sergio Marchionne dovrebbe dar conto di Fabbrica Italia assai meglio di quanto abbia fatto e il sindacato accettare, unito, la logica dell’impresa, fatta di sacrifici e di premi. Ma a imporre il modello della Mitbestimmung (la codecisione, per l’appunto) sono stati i governi, democristiani e socialdemocratici, prim’ancora dei sindacati.