Minxin Pei, L’espresso 20/1/2011 (uscita 14/1), 20 gennaio 2011
A PECHINO CORRE ANCHE L’INFLAZIONE
A quanto pare, è possibile che il troppo stroppi perfino in un periodo di ristrettezze economiche. Ne è un esempio calzante la Cina: mentre l’anemica crescita economica in Europa e negli Stati Uniti rischia di trascinare questi Paesi nella deflazione, in Cina lo sviluppo frenetico sta preparando il terreno per un possibile balzo dell’inflazione. Un tempo, altrove ci si sarebbe preoccupati assai meno per la situazione in Cina, in quanto la sua economia era di dimensioni relativamente contenute ed era collegata solo in minima parte al resto del pianeta. Quei tempi, però, sono definitivamente alle spalle.
Sostenuta per trent’anni da una crescita a doppia cifra, la Cina ormai ha eclissato il Giappone ed è diventata la seconda economia più importante al mondo. Ha scavalcato d’un balzo la Germania, divenendo il principale esportatore al mondo. La Banca centrale cinese detiene le più ingenti riserve di valuta straniera al mondo, quantificabili in circa 2.600 miliardi di dollari. La crescita economica cinese è pari, da sola, a un quarto della produzione economica globale. In ragione del suo inappagabile fabbisogno di materie prime ed energia, la domanda cinese sta facendo salire il prezzo di rame, minerale di ferro e petrolio.
È pertanto facile immaginare come sia possibile che, quando starnutisce un miliardo e 300 milioni di cinesi, il resto del mondo si prenda il raffreddore. Fino a non molto tempo fa, il timore più assillante per Pechino era il rischio di deflazione, perché i cinesi hanno investito in modo esorbitante nella costruzione di stabilimenti produttivi. Era opinione pressoché unanime che gli articoli fabbricati in eccesso dall’industria locale alla fine ne avrebbero fatto diminuire sensibilmente i prezzi. Questo scenario, invece, non si è ancora materializzato. Contrariamente a quanto previsto, la causa principale di apprensione è per Pechino l’inflazione, non la deflazione. Nel 2010 il tasso annuo di crescita dei prezzi era stimato essere superiore al 5 per cento. Naturalmente, si tratta di una prospettiva ancora assai lontana da quell’iper-inflazione a doppia cifra in grado di portare l’economia alla rovina. Ciononostante, nel caso della Cina, l’inflazione potrebbe determinare una grossa instabilità sociale, un vero e proprio incubo per il Partito comunista al potere.
Non tutte le inflazioni si somigliano. Nella variante cinese, il fenomeno si concentra sui prezzi dei generi alimentari. Se nel complesso il livello dei prezzi al consumo è salito nel novembre 2010 del 5,1 per cento (rispetto a un anno prima), i generi alimentari costano ben l’11,7 per cento in più. Dal momento che in media una famiglia spende il 35 per cento del proprio reddito per il cibo, i prezzi in aumento dei generi alimentari tendono a colpire in modo particolarmente forte i cinesi comuni, innescando risentimento e rancore nei confronti del governo.
Pechino attribuisce l’aumento dei generi alimentari alle avverse condizioni meteorologiche, ma ovviamente non è possibile che questa sia tutta la verità. A questo aumento contribuiscono invece più elementi. Di norma, l’inflazione tende a salire se la disponibilità monetaria cresce troppo rapidamente. Questa sembra essere per l’appunto la causa fondamentale delle pressioni inflazionistiche in Cina, anche se il governo si rifiuta di riconoscere i grossolani errori commessi nella politica economica. Stando alle cifre ufficiali, la disponibilità monetaria sta crescendo allo strabiliante ritmo del 20 per cento annuo dal 2002 (con un ritmo doppio, quindi, rispetto all’aumento del prodotto interno lordo). Negli ultimi due anni è aumentata invece del 47 per cento, poiché il governo ha tolto i freni ai prestiti delle banche per stimolare l’economia cinese. E quando si stampano quantità incalcolabili di moneta l’unico risultato non può che essere l’inflazione.
Ad aggravare ancor più le cose, Pechino ha mantenuto negativi di proposito i tassi di interesse, così che le aziende di proprietà statale e gli imprenditori del settore immobiliare potessero beneficiare di capitali gratis (naturalmente sono le famiglie cinesi a ritrovarsi costrette a pagare per questa gratuità). Proprio all’abbinata capitale gratis ed enorme disponibilità di denaro liquido va addossata la responsabilità della bolla immobiliare, tenuto conto che i governi locali e gli imprenditori del settore utilizzano capitali gratis per far lievitare i prezzi dei terreni e costruire immobili che pochi tra i cittadini cinesi comuni possono effettivamente permettersi di acquistare.
Adesso che l’inflazione rischia di provocare instabilità sia a livello economico che sociale, il governo cinese ha iniziato a prenderla sul serio. Purtroppo, buona parte degli strumenti di cui si avvale Pechino sono misure amministrative, non basate sull’andamento reale del mercato. Per esempio, per ben due volte è stata data disposizione alle banche di alzare il loro coefficiente di riserva (in modo da ridurre la concessione di prestiti). È stato imposto anche di calmierare i prezzi dei generi alimentari. Il giorno di Natale, la Banca popolare cinese ha annunciato un sorprendente, per quanto modesto, incremento del tasso di interesse di 25 punti base, portando così il tasso di sconto ufficiale al 5,81 per cento.
La reazione di Pechino fa arrovellare non pochi analisti. Misure amministrative come il calmiere sui prezzi funzionano soltanto di rado. La più potente arma anti-inflazione sarebbe piuttosto una stretta sui tassi. Perché allora Pechino sembra resistere all’idea di alzarli? Anche dopo il recente ritocco il tasso è di poco sopra al livello dell’inflazione (5,1 per cento).
Ci sono almeno tre motivi per i quali Pechino ha le mani legate in fatto di lotta all’inflazione. Il primo: tenuto conto che la valuta cinese è ancorata al dollaro, un tasso di interesse in aumento incoraggerebbe l’afflusso di capitali da investire subito per ricavarne maggiori introiti (al momento, il tasso a breve termine negli Stati Uniti è praticamente zero).
La seconda ragione è che, poiché i prestiti bancari alimentano la crescita cinese legata agli investimenti, aumentare i tassi di interesse potrebbe provocare il crollo della crescita nel suo complesso, risultato tanto indesiderato e rischioso quanto una inflazione galoppante.
Infine, l’aumento del tasso di interesse colpirebbe in primis le aziende private (che pagano tassi legati all’andamento del mercato), mentre avrebbe un impatto soltanto limitato sulle aziende di proprietà dello Stato e dei governi locali, i quali non devono preoccuparsi di restituire i capitali. L’effetto che tale provvedimento avrebbe nell’arginare l’inflazione, pertanto, sarebbe davvero modesto. Ne consegue che, nella sua battaglia contro l’inflazione, la Cina si trova tra l’incudine e il martello.
Per il resto del mondo l’inflazione cinese potrebbe provocare una brusca frenata al boom delle commodity. Se la crescita cinese traballerà a causa dell’inflazione, i prezzi delle commodity probabilmente precipiteranno. Un rallentamento dell’economia in Cina potrebbe oltretutto compromettere seriamente la debole ripresa economica in Europa e negli Stati Uniti. Al momento, le esportazioni dell’Occidente in Cina stanno crescendo con un buon ritmo, benché la Cina abbia eccedenze commerciali enormi sia nei confronti dell’Unione europea che degli Stati Uniti. La domanda cinese di tali prodotti d’esportazione, tuttavia, potrebbe anche volatilizzarsi qualora l’economia interna subisse un forte colpo.
Non stupisce affatto, di conseguenza, che gli investitori occidentali oggi guardino con forte apprensione agli sfavorevoli dati economici cinesi.
(traduzione di Anna Bissanti)