Stefania Rossini, L’espresso 21/1/2011 (uscita 14/1), 21 gennaio 2011
METTI LA CINA SUL LETTINO
La psicoanalisi parla cinese, russo, coreano, arabo, indiano. Supera vecchie frontiere culturali e invade territori ancora vergini. Si insinua tra il pensiero di Confucio e l’obbedienza a Maometto, compromettendone il primato nel dominio dell’animo umano. Quello che fino a pochi anni fa sembrava impossibile sta avvenendo: la globalizzazione ha piegato alle sue leggi anche la disciplina più riservata per natura e meno incline per struttura a misurarsi con i cambiamenti del mondo. Mentre in Occidente il dominio degli psicofarmaci e l’emergenza economica ne hanno un po’ appannato lo smalto, facendo diminuire i pazienti non più disposti a terapie lunghe e costose, ecco aprirsi paesaggi sconfinati che forse l’arricchiranno nei contenuti, forse la modificheranno nei metodi, ma certo la stanno chiamando a una nuova avventura.
I primi a rilanciare la psicoanalisi con l’entusiasmo e la fretta di un ritorno alla vita, sono stati i paesi dell’ex Unione sovietica, che dopo mezzo secolo di isolamento hanno ritrovato le tracce del loro contributo alla stagione dei pionieri, quando molti dei seguaci di Freud provenivano dall’Europa dell’Est (come Wilhelm Reich o Lou Andreas-Salomé) e i più ricchi pazienti erano russi (come il giovane aristocratico che ispirò "Il caso clinico dell’uomo dei lupi"). A Mosca, in particolare, va oggi crescendo un interesse culturale e clinico che sembra recuperare lo slancio dei primi decenni del secolo scorso, quando si formò quella curiosa alleanza fra psicoanalisi e bolscevismo sotto la protezione di Trotskij che aveva vissuto a Vienna, era amico di Adler e sapeva far uso di concetti freudiani. Come si sa, Stalin azzerò ogni attività confinandola nella clandestinità fino all’estinzione, con l’unica eccezione dell’Ungheria dove alcuni psicoanalisti riuscirono a sopravvivere, probabilmente per la forte impronta lasciata da quel genio della psiche che era stato Sándor Ferenczi. Ma alla caduta del Muro, anche a Praga, a Bucarest, a Varsavia, a Kiev, a Vilnius, fino a isolate città della Siberia, si sono ricostituiti gruppi di analisti, mentre l’editoria sforna migliaia di copie di saggistica psicoanalitica, compresi i classici che il regime aveva messo sotto chiave nelle biblioteche di Stato, rendendoli accessibili soltanto a chi dimostrava di voler criticare quel decadente pensiero borghese.
Sarà perché, come pensava Freud, i popoli slavi hanno una predisposizione particolare all’indagine dell’inconscio, sarà perché il ritorno alla libertà invita a prendersi cura delle ferite proprie e di quelle altrui, o sarà per compensare il tempo perduto, ma la fortuna della psicoanalisi nell’Est europeo sembra destinata ad aumentare. "Lo sgretolamento della società totalitaria ha fatto ricadere sugli individui problemi di sopravvivenza che sollevano angosce prima affidate in gran parte alle strutture sociali. Ora ognuno è costretto a fare conto sulle forze del proprio io", dice lo psicoanalista triestino Paolo Fonda, responsabile del The Han Groen Prakken Psychoanalytic Institute for Eastern Europe che da vent’anni si occupa della rinascita della psicoanalisi nei paesi ex sovietici. D’altra parte il trauma del comunismo irrompe spesso da un passato da rielaborare, come si deduce dalle centinaia di pazienti che si sono già sdraiati su un lettino. Molti di loro hanno raccontato storie agghiaccianti, come quella del giovane universitario che nel 1995 si vide recapitare una lettera del Kgb in cui gli si chiedeva scusa per l’uccisione del nonno paterno e di quattro zii, ora riabilitati. Il ragazzo apprendeva in quel modo un segreto famigliare che suo padre, unico sopravvissuto, aveva custodito per decenni.
Ma se l’Europa dell’Est sta riannodando il filo interrotto della propria storia, riavvicinandosi alla famiglia comune, i nuovi mondi che si appropriano dei saperi freudiani fanno interrogare la psicoanalisi sull’universalità dei propri assunti e sulla possibilità che questi trovino casa anche in contesti culturali del tutto diversi. Ad esempio, in Libano, dove è già presente un gruppo di analisti ufficialmente riconosciuti e nei paesi del Maghreb, dove se ne stanno formando altri, la sfida è alla concezione patriarcale islamica, mentre in India, dove l’insediamento è più antico, l’analista Jhuma Basak vede la psicoanalisi come un fattore di emancipazione e un contenitore dei cambiamenti in atto. Il confronto più impegnativo con l’alterità si gioca però nell’ultima frontiera, quella fino a ieri davvero impensabile: la Cina. Ed è per questo che l’International Psychoanalytic Association, l’organismo fondato da Freud nel 1910 per garantire la corretta diffusione della psicoanalisi nel mondo, ha voluto celebrare a Pechino con una conferenza internazionale, il centenario della sua fondazione.
Solo trent’anni fa un intellettuale acuto come Roland Barthes, nel saggio "Alors la Chine", si diceva sicuro che la teoria dell’inconscio non avrebbe mai interessato i cinesi perché questi sono "un popolo senza isteria", senza cioè quel primo eclatante sintomo del corpo che aveva indirizzato Freud a indagare la psiche. È invece accaduto che i primi psicoanalisti europei siano stati chiamati in Cina nel 1983, proprio per una consulenza su un caso di isteria di massa nell’isola di Hainan: tremila persone cadute preda di una sindrome collettiva dovuta alla credenza che spiriti maligni stessero facendo rientrare nel corpo degli uomini il pene e in quello delle donne i seni e la vulva. Fu un buon inizio perché da allora le visite e le conferenze degli occidentali, soprattutto tedeschi e norvegesi, si sono moltiplicate, fino all’attuale esplosione di interesse che vede una grande produzione di saggi , di articoli divulgativi e di siti Internet.
Resta aperto il delicato problema della formazione che in questa fase difficilmente potrà seguire le rigide regole codificate in un secolo di psicoanalisi (quattro sedute a settimana per molti anni), ma dovrà almeno in parte adattarsi alla flessibilità già sperimentata per i paesi dell’Europa dell’Est: soggiorni periodici di alcuni mesi in Occidente, settimane e weekend intensivi. Per ora, i "veri" analisti si preparano interamente all’estero, mentre in Cina i training sono indirizzati prevalentemente a formare psicoterapeuti ad indirizzo psicoanalitico. È il punto che suscita più discussione in una parte della comunità psicoanalitica internazionale, insieme a quello della profondità delle differenze culturali e delle insidie che vi si nascondono. Ci si interroga su come potrà adattarsi una costruzione profondamente europea, nata sul modello di una famiglia nucleare di tipo borghese, al collettivismo cinese e alla famiglia allargata. Ma se il timore di alcuni è che sia proprio la psicoanalisi a uscirne trasformata, quanti si occupano con continuità delle nuove frontiere si augurano che ciò avvenga. Lo ha detto con chiarezza il presidente dei gruppi internazionali della Società psicoanalitica (New Ipa), Jorge Canestri che, parlando a un pubblico di cinesi, americani, europei, coreani, giapponesi e indiani, ha affermato: "La trasmissione della psicoanalisi, specie se si verifica in contesti culturali molto diversi, non va a senso unico, ma produce una fecondazione reciproca di culture, di teorie e di visioni del mondo con il risultato di arricchire l’intero pensiero psicoanalitico".
Dalla Cina, che perde Confucio per abbracciare Freud, può cominciare insomma il secolo secondo della psicoanalisi.