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 2011  gennaio 14 Venerdì calendario

ULTIME GRIDA

Quando la borsa di Chicago apre, alle 7 e 20 di mattina, decine di speculatori e broker in giacche sgargianti agitano le braccia, ammiccano, si spingono, urlano ordini di vendita e acquisto di contratti futures. In un mercato finanziario quasi completamente virtuale, con giovani broker che muovono milioni di dollari dai loro loft scintillanti, questo è uno degli ultimi luoghi al mondo in cui la compravendita avviene ancora - diciamo così - "materialmente". Fiumi di denaro, montagne di dollari scambiati con segni convenzionali che per i profani sono enigmatici come geroglifici.
Con un sistema vecchio oltre un secolo - chiamato open outcry trading perché gli ordini vengono letteralmente strillati - si decidono i prezzi di tutto, dal grano alla pancetta di maiale passando per la soia. In pratica funziona così: gli agricoltori vendono contratti per fissare in anticipo il prezzo al quale la loro merce, prendiamo il caso della soia, verrà consegnata alle industrie. Le aziende che utilizzano la soia sono felici di sottoscriverli per sapere con esattezza le spese che dovranno sostenere al momento dell’acquisto. Ma per un ventaglio di variabili, prima fra tutte la meteorologia, i prezzi oscillano costantemente.
E qui intervengono i trader: cercano di speculare comprando e rivendendo tonnellate di soia nel giro di pochi secondi. «Per sopravvivere in questo campo di battaglia devi avere fegato e testa», ci spiega Vincent D’Agostino, uno scugnizzo di Chicago dall’aria spigliata e le spalle da rugbista che contratta da cinque anni. «In una mattina storta puoi distruggere i guadagni di un anno intero. Devi rimanere umile, cercare di non fare il fenomeno. Altrimenti i soldi li perdi in un attimo. E gli altri ti guardano e ridono. È un giochino pericoloso, questo».
Nelle fosse di contrattazione della borsa di Chicago va quotidianamente in scena uno spettacolo spietato in cui i protagonisti indiscussi sono proprio loro, i trader. Perlopiù di umile estrazione, gli speculatori di solito cominciano giovanissimi come assistenti-broker, sperando di accumulare abbastanza denaro per comprare (o affittare) una licenza utile a contrattare in proprio, il cui valore oggi si aggira intorno ai 250mila dollari. «È l’unico posto al mondo in cui, partendo da zero, puoi diventare davvero ricco contando solamente sul tuo lavoro e la tua determinazione», racconta Rob Kelley, trader veterano. «Ho dei cugini che sgobbavano in una fattoria per due soldi, sono venuti qui e adesso guadagnano milioni di dollari all’anno».
Molti speculatori passano la vita in questo grande casinò dalle pareti foderate di monitor pulsanti tentando di guadagnare una fortuna. O, almeno, di non bruciarsi le mani. Il che conferisce alla Borsa di Chicago un carattere singolare. Nevrosi, cameratismo e goliardia s’intrecciano. Per tentare di catturarne lo spirito di corpo, basta ascoltare le battute dei trader mentre comprano e vendono: più che in un luogo in cui vengono scambiati milioni di dollari ogni secondo, ti sembra di stare nello spogliatoio di una squadra di calcio amatoriale. «Sono dei giocherelloni, dei guasconi», commenta con una risata di panda Franco Calascibbeta, il barbiere ufficiale della Borsa, un siciliano di Cefalù arrivato qui più di vent’anni fa. «Questa non è gente con la puzza al naso, sono ragazzi a cui piace scherzare».
Ma questa compagnia di competitors dai modi schietti e un po’ gigioni potrebbe presto essere solo amarcord. Nel 1997 lavoravano al Chicago Mercantile Exchange 6mila persone. Oggi ne restano un decimo. Quasi tutti ormai contrattano su Globex, la piattaforma elettronica. Aperta 24 ore su 24, è più conveniente da gestire e genera un giro d’affari superiore rispetto alla borsa tradizionale. «In un paio d’anni l’Exchange chiude - sospira Vincenzo Notardonato, un ex trader dell’arena passato alle negoziazioni sul web -. Non puoi più competere con questi computer, con questi algoritmi».
A sentire diversi speculatori di lungo corso l’emblema del cambiamento ha un nome e un cognome: John Werner. «Guardalo - borbotta l’operatore Frank Maritoti indicando un collega dalla corporatura massiccia seduto ai bordi della fossa del grano -: era il più bravo di tutti, una leggenda. Sgomitava, ti stordiva con il suo vocione baritonale, mercanteggiava anche cento contratti allo stesso tempo. Adesso è lì da solo, mogio mogio, spaesato. I suoi competitors sono invisibili, sono online».
Per molti operatori il passaggio al computer è stato traumatico: spesso i fuoriclasse dell’arena al terminale non sono fenomeni. Le doti che permettono di eccellere sono differenti. Da quando nel 1848 a Chicago sono cominciate le negoziazioni urlate per difendere gli agricoltori dalla fluttuazione dei prezzi del grano, la caratteristica essenziale dello speculatore di successo è sempre stata il fisico. Per piazzare l’ordine prima degli altri servivano spalle larghe e statura da cestista. Tanto che i meno alti sopperivano con speciali zeppe “tacco dieci”. Ma nel mondo dei software la stazza non conta più. Contano solo gli algoritmi. «Come me molti trader provenivano dal mondo dello sport», ricorda Rich Stanfel, 46 anni, ex giocatore di basket alla Ohio University e trader dal 1987. «I centimetri da un lato e le capacità interpersonali dall’altro erano elementi fondamentali, ma se contratti al computer queste cose passano in secondo piano».
Tutto vero. Eppure, in questo arcipelago di arene in disarmo, ce ne sono alcune che non hanno intenzione di issare bandiera bianca. Una di queste è la fossa delle Eurodollar options, considerata la serie A dell’open outcry, in cui si scommette sull’aumento o sulla diminuzione dei tassi d’interesse su euro e dollaro. Il meccanismo di contrattazione è complesso: finora nessun software è risultato più efficiente della mente umana in questo ramo nobile della specialità. «Resistiamo con grande orgoglio», sorride con gli occhi la veterana Elisabeth Cook, 50 anni, operatrice dal 1978 e unica donna superstite nell’arena delle Eurodollar options. «Se la borsa dovesse diventare completamente virtuale cambierei lavoro, amo lo spirito di corpo che si respira in questa giungla di capitalismo allo stato grezzo, in cui devi soffocare le emozioni perché se mostri una debolezza ti sbranano».
Spinti fuori dall’arena, molti dei trader vecchio stampo soffrono di sindrome da telelavoro. I più nostalgici delle contrattazioni gridate, dopo una giornata di scambi di fronte al monitor immersi nella calma soporifera dell’ufficio casalingo scappano a incontrare i vecchi colleghi a "Tutto Italiano", un bar a due passi dalla borsa in cui si respira un’atmosfera a metà tra dopolavoro ferroviario e pub irlandese. «Ho cominciato nel 1988», racconta il quarantasettenne Ronaid Krug, un ex urlatore da un anno a caccia di quattrini in rete. «Era il Wild West, il selvaggio West, in 20 secondi potevi guadagnare una fortuna e perderla, tra pacche sulle spalle e sfottò. È il mestiere che più si avvicina a quello dell’atleta professionista. Sei giudicato sempre sulla base dell’ultima performance. Adesso mi manca l’adrenalina, le amicizie, l’euforia. È come se online fosse tutto finto».