Giampaolo Pansa, Libero 14/1/2011, 14 gennaio 2011
LA LEZIONE INCOMPRESA DEI 40MILA
La marcia dei 40 mila, il corteo torinese che nell’ottobre 1980 dissolse il blocco sindacale della Fiat Mirafiori? Mi stupisco sempre che qualcuno se ne ricordi, al punto di farne una bandiera di libertà. Eppure accade. Me ne sono reso conto il 26 agosto dell’anno scorso, al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. Quella mattina parlava Sergio Marchionne. E spiegò i problemi che stavano di fronte alla Fiat. Dicendo con chiarezza che la lotta per salvare il colosso dell’auto aveva un esito incerto.
A Marchionne era stato riservato l’Auditorium, lo spazio più grande della Fiera di Rimini, pieno sino all’orlo. Il capo della Fiat fu interrotto da ventun applausi. E quando finì, venne circondato da un mare di gente, soprattutto da giovani che volevano vederlo da vicino, stringergli la mano, toccarlo. Poi qualcuno cominciò a gridare: «Sergio, sei la nostra diga! Faremo un’altra marcia dei quarantamila!».
Dunque la marcia di Torino non era una storia vecchia di un trentennio, come pensavo. Ne avevo scritto parecchio nell’autunno 1980. E non immaginavo di vederla ricomparire tanto tempo dopo. Come un programma dibat taglia per chi voleva lavorare senza sentire sul collo il peso del sindacato rosso, la Fiom e, con lei, la Cgil.
Anche nell’ottobre 1980 il problema era lo stesso di oggi. Reso più grave e complesso dal blocco della Fiat. Lo stabilimento di Mirafiori non era stato occupato, come più di un giornale scrive adesso. Però era stato circondato dagli attivisti del sindacato. I cancelli erano chiusi. E nessuno poteva recarsi al lavoro. Capi, impiegati e operai tutti a casa, perché così aveva deciso la Triplice sindacale, Cgil, Cisl e Uil.
Il blocco durava da metà settembre e non esisteva trattativa in grado di scioglierlo. L’esasperazione di chi voleva lavorare diventava sempre più forte. Nella notte fra il 7 e l’8 ottobre, un gruppetto di capi operai tentò di entrare a Mirafiori, però i picchetti lo respinsero. La mattina del 9 ottobre alcuni picchetti vennero sfondati, eppure il blocco continuò. Il 10 ottobre fu attuato in tutta Italia lo sciopero generale di quattro ore contro la Fiat. Ma a Torino l’esito risultò mediocre.
Trascorsero quattro giorni e la mattina di martedì 14 ottobre, all’Hotel Boston di Roma, ripresero le inutili trattative sui licenziamenti annunciati in settembre dall’azienda. In una saletta dell’albergo si fronteggiavano due delegazioni. Quella dei sindacati era composta da Luciano Lama, segretario generale della Cgil, da Pierre Carniti, leader dei meccanici Cisl, e da Giorgio Benvenuto, capo dei meccanici Uil. Di fronte a loro, la delegazione Fiat: Cesare Romiti, con Vittorio Ghidella, Carlo Callieri, Cesare Annibaldi e Maurizio Magnabosco.
Mentre riprendeva la discussione, Callieri disse: «Questa mattina a Torino i capi Fiat guidati da Luigi Arisio si riuniscono al Teatro Nuovo per una manifestazione di protesta contro il blocco di Mirafiori. Se riempiono la sala, sarà un successo...». Poco dopo si seppe che il teatro era strapieno e che molta gente non era riuscita a entrarvi. Quindi arrivò un’altra notizia: i tantissimi del Teatro Nuovo erano usciti e partendo da corso Massimo D’Azeglio, al Valentino, si stavano dirigendo verso corso Marconi, sede del quartier generale Fiat.
Strada facendo, il corteo s’ingrossò. Alzava cartelli e striscioni che chiedevano la fine del blocco e la riapertura di Mirafiori. Gli slogan erano tutti sul diritto al lavoro. Ai piccoli capi Fiat si erano affiancati molti torinesi contrari alla paralisi dell’azienda e della città. In seguito, Romiti mi disse: «Certo, non erano tutti dipendenti Fiat, c’erano anche commercianti con i loro commessi, e tanta gente qualunque. Alla fine erano diventati quarantamila. C’era Torino. C’era l’Italia».
Obiettai a Romiti: «Molti sostengono che non fossero così tanti, ma soltanto poco più di diecimila persone». Lui mi replicò: «No, erano proprio 40 mila. Ma quel giorno, più del numero dei dimostranti, a contare fu un altro fatto: nessuno, né noi, né tanto meno i vertici dei sindacati, si aspettava questa marcia. Era tutta gente non abituata a scendere in piazza. Eppure quel giorno, il trentacinquesimo del blocco, aveva deciso di farlo. Per gridare: basta con i picchetti, basta con le squadre che ci impediscono di entrare in fabbrica!».
Quando si comprese bene che cosa era accaduto, Romiti chiese ai capi sindacali: «Signori, che facciamo?». Si decise di rinviare l’incontro alla sera, nell’ufficio del ministro del Lavoro, Franco Foschi, democristiano. Tutti lasciarono l’Hotel Boston. Nell’andarsene, Carniti disse a Romiti: «Siete stati bravi a organizzare questo corteo. Ma io domani ne porto in piazza cinquecentomila!». Poi Romiti mi raccontò: «Sul viso di Lama vidi un guizzo di delusione, quasi un muto rimprovero a Carniti per non aver colto subito il significato politico di quel che era accaduto a Torino».
Anni dopo, chiesi a Lama di rievocarmi il suo punto di vista sulla marcia dei 40 mila. Lui mi rispose con la schiettezza di sempre: «La marcia aveva messo il timbro sulla nostra sconfitta. E aveva svelato l’isolamento della battaglia sindacale alla Fiat rispetto alla gente di Torino, compresa una buona parte degli operai Fiat, per non parlare dei quadri intermedi. È vero che la vertenza era stata sostenuta anche da forze esterne
al movimento sindacale, forze culturali e politiche. Ma di fatto era emersa la verità: eravamo isolati».
La sera del 14 ottobre, nell’ufficio del ministro Foschi, l’ambiente che trovò Romiti lo convinse di aver vinto per davvero: «Silenzio, sguardi fissi, arie torve. Carniti con il volto teso dall’ira. Benvenuto con l’aria del pugile sconfitto. Lama, invece, era tranquillo. Disse: “Abbiamo già i biglietti dell’aereo per Torino. Partiamo domattina con il primo volo. Diremo negli stabilimenti che la vertenza è finita: abbiamo perso”. Poi Lama si rivolse a Romiti: “Metta giù lei il testo dell’accordo”».
In seguito chiesi a Lama se era vero. Mi rispose: «Sì, dissi così a Romiti perché era l’uomo più adatto a farlo dal punto di vista pratico. Non perché doveva essere lui a dettare le condizioni dell’intesa. No, questo no. Anche se restava il fatto che Romiti aveva vinto e noi perso».
Il 15 ottobre, a Torino, i capi del sindacato vennero accolti a brutto muso dai loro attivisti. Mi disse Lama: «L’assemblea fu un disastro. Io non parlai. Parlò Carniti e con lui altri dirigenti torinesi. Dio mio, che spettacolo! Non per i fischi, che nelle assemblee sindacali sono normali, e si spiegano. No, parlo di una certa aria, di un certo ambiente. Me lo rivelò un fatto in apparenza da nulla, ma che è rimasto nella mia memoria...» Chiesi a Lama: «Sta parlan-
do di un insulto più aspro di altri, di un gesto violento?». Lama rispose: «Per niente. L’assemblea si teneva in un locale non grande, ma affollatissimo. Gente dappertutto, che si accalcava. Proprio davanti a noi, in prima fila, stava una coppia di giovani che si comportava come se fossero soli in una stanza. Mentre la discussione si faceva sempre più accesa, con urla, fischi, interruzioni continue, quei due si baciavano, si stringevano, si strusciavano, si toccavano in modo plateale, voluto».
«Non ricordo uno spettacolo più deprimente di quello. Mi sembrò quasi simbolico: la dissoluzione del sindacato attraverso il dileggio, attraverso dei gesti in sé bellissimi, ma in quel momento di un’arroganza scurrile. Quei due compagni sembravano dire: ce ne freghiamo di voi, del sindacato, della vertenza Fiat, di tutto, e vi mandiamo a quel paese facendo i comodi nostri!».
Il 16 ottobre, i capi sindacali andarono a Mirafiori per un’altra assemblea. «Fu allora» mi raccontò Lama, «che Carniti rischiò davvero molto e dovette essere salvato. Io mi trovai più difeso da un gruppo di miei compagni. Pioveva, c’era una massa di gente infuriata, una tensione senza sbocco. Sì, un brutto giorno, un giorno orrendo».
In seguito Lama riconobbe: «Quei quarantamila che sfilavano per Torino non li aveva inventati Mefistofele né l’avvocato Agnelli. Erano i figli dell’appiattimento salariale e normativo, provocato un po’ dalla scala mobile e un po’ dai più recenti contratti collettivi di lavoro».
Qualche anno dopo l’ottobre 1980, Lama trasse una lezione anche più dura dalla sconfitta di Mirafiori. Intervistato da Gianni Montani, del periodico torinese “La Città”, ammise: «Noi non avevamo capito niente, né della Fiat, né dei suoi rapporti con il mercato, che non erano più quelli di dieci o venti anni prima, né dei problemi della sua efficienza e redditività».
Trent’anni dopo, la storia si ripete? Lo sapremo questa sera. E c’è da sperare che l’unica sorpresa sia una coppia di morosi del 2011, che flirtano senza pudore ai cancelli di Mirafiori.