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 2011  gennaio 14 Venerdì calendario

ARANCE, MAFIA E COSTI. LA RACCOLTA AD ALTO RISCHIO


L’arancia di Sicilia? Resta sull’albero. L’isola si conferma come il maggio­re produttore italiano di questo frut­to, tra i più amati della nostra tavola, eppure c’è un paradosso che si consuma annual­mente all’ombra dell’Etna così come nel cuo­re verde di questo territorio. Il problema è la raccolta, specie quando la produzione supe­ra ogni aspettativa e abbatte i prezzi già e­stremamente bassi. È successo ad esempio nel 2010, quando sono stati prodotti circa 18 milioni di quintali di agrumi, secondo i dati Istat. Una crisi che stritola da anni i 25mila produttori siciliani, che coltivano i circa 93mila ettari ad arance, limoni e mandarini, dando lavoro a 98mila persone tra diretti e in­dotto, escluso il settore del commercio. Pic­coli proprietari terrieri, con appezzamenti di pochi ettari, che non riescono a far tornare i conti.
Il calcolo è presto fatto. Per produrre un chi­lo di arance sono necessari 30 centesimi, mentre i commercianti li comprano tra i 15 e i 25 centesimi al chilo, per l’alta qualità de­stinata alla tavola. Per il prodotto da desti­nare all’industria, appena il 10 per cento, il prezzo è di 8-9 centesimi al chilo per le a­rance bionde e 10 centesimi per le aran­ce rosse. Mentre il costo della manodo­pera ammonta a 80 euro al giorno. Mo­tivo per cui risulta crescente la presenza di manodopera extracomunitaria, spes­so pagata meno e a nero, con rischi e­normi e una sponda in più all’infiltra­zione della criminalità organizzata, che in tutta Italia si stima crei un danno al­l’agricoltura pari a sette miliardi e mez­zo di euro, fra estorsioni, furti, forme di ca­poralato e abigeato. «La situazione siciliana è paradossale – af­ferma il presidente della Coldiretti dell’iso­la, Alessandro Chiarelli – perché, nonostan­te nell’attuale campagna agrumicola si regi­stri una riduzione della produzione del 10 per cento, il costo del prodotto non è au­mentato ». Pesanti anche le critiche alla gran­de distribuzione, «che impone ai supermer­cati l’acquisto degli agrumi non siciliani. Que­sto è un atteggiamento francamente incom­prensibile ». L’invasione di prodotto da altri Paesi, come il Perù, il Sudafrica e la Tunisia, dove la produzione cresce e il costo del lavo­ro è inferiore, è una delle minacce più gravi all’agrumicoltura siciliana.
Sembra evidente, allora, che occorre correre ai ripari. Finora l’unica ciambella di salva­taggio è stata rappresentata dai contributi che l’Unione europea eroga ai coltivatori, cir­ca 1.100 euro ad ettaro. L’ipotesi avanzata in Calabria di aumentare la percentuale di suc­co nelle bibite è guardata come una possibi­lità. «Non si supererebbe così la crisi – osser­va il direttore della Coldiretti, Giuseppe Cam­pione – ma di certo si andrebbe verso un con­sumo di prodotto più razionale e adeguato al­l’alimentazione ». Ma gli addetti ai lavori pun­tano a incentivare il consumo domestico, «il saggio u­so delle spremute potrebbe con­tribuire a ri­sollevare il comparto ed educare a una corretta alimen­tazione i nostri ragazzi in tutta la Penisola – suggerisce Salvatore Rapisarda, presidente del consorzio Euroagrumi, che riunisce tre­mila ettari di agrumeti nella Sicilia orienta­le –. Con una politica sbagliata abbiamo per­so l’Italia e ci siamo illusi di guadagnare mer­cati lontani, dove il prodotto arriva stanco. Per creare una vera concorrenza dobbiamo valorizzare l’alta qualità del nostro pro­dotto».