Giancarlo Dotto, Sette 13/1/2010, 13 gennaio 2010
SUPER SGARBI - Se la sera di Natale, invece che a casa tua a flirtare con i parenti sotto l’albero e a scartare l’ultimo torrone, ti ritrovi nello scantinato buio di un palazzo rinascimentale a Todi, le ipotesi sono due: sei ostaggio dell’anonima sequestri o sei al seguito di Vittorio Sgarbi
SUPER SGARBI - Se la sera di Natale, invece che a casa tua a flirtare con i parenti sotto l’albero e a scartare l’ultimo torrone, ti ritrovi nello scantinato buio di un palazzo rinascimentale a Todi, le ipotesi sono due: sei ostaggio dell’anonima sequestri o sei al seguito di Vittorio Sgarbi. L’avevo lasciato tre giorni prima in accappatoio, seminudo, che cercava d’infilarsi correndo un paio di boxer bianchi, alle prese con una cinquantina di persone che entravano e uscivano dalla porta socchiusa della sua abitazione romana a Palazzo Massimo («Da oggi esigo solo foto in posa, come Napolitano»), che litigava simultaneamente con un sovrintendente al telefono («Tanto ho capito che per te il Bosch artista e quello delle candele sono la stessa cosa») e con la Prestigiacomo in video, nel frattempo trattando il prestito di un Piero della Francesca («Diciottomila euro? Piero della Francesca non è la D’Addario!»), una mostra del Tintoretto e dialogando al cellulare con il comandante dei vigili del fuoco, il tutto mentre due ragazze lo aiutavano da dietro ad allacciarsi il panciotto, sotto lo sguardo compassionevole della Maddalena di Guido Reni in camera da letto. «Ci vediamo a Todi, ti va?». «Quando?». «Il giorno di Natale, alle cinque». L’argomento è il suo ultimo, bellissimo libro, Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri (Ed. Bompiani), che è poi l’Italia desiderabile secondo Vittorio, i suoi percorsi iniziatici, un luna-park privato a forma di stivale, da Bolzano a Ragusa, dalla Padania alla Sicilia, tesori visibili e nascosti, più eccitanti se misconosciuti o dimenticati. Come il giardino di Ninfa, la magia di Treia e il convento di Scarzuola o il museo di Capua, le chiese di Rovigo e di San Severino, Villa Fersen a Capri, i bagni di De Chirico a Milano, i dipinti di Rubens a Genova. Libro che ti fa sentire migliore solo per il fatto di averlo letto e che lui ha scritto non si sa quando, visto che stravive di giorno e straripa la notte. Tre giorni dopo, Natale, Sgarbi sbuca quasi puntuale dalla porta girevole dell’Hotel Plaza a Roma, una fanciulla ansimante al seguito. S’infila a passo di carica nella toilette. «Arrivo da Giulianova, sono passato a vedere un Bronzino della collezione del principe Ruspoli». Un minuto dopo è già fuori, dove lo aspettano il fido Jack al volante di una Bmw e la macchina con i due agenti di scorta. «La mafia mi ha fatto recapitare una testa di maiale. Come sindaco di Salemi, sto intralciando i loro affari nell’eolico». Jack è il suo autista, ma anche il suo Leporello, la faccia sotterrata dentro il berretto da baseball che non toglie nemmeno le rare volte che va a letto. Jack deve avere un suo manuale di sopravvivenza incorporato. Settant’anni, di cui quindici vissuti pericolosamente a sterzare quel forsennato di Sgarbi, hanno fatto di lui un monaco zen. Ha visto l’alba a Ferrara, costretto dal suo capo insonne a guardare Amici miei. Si parte. Musica classica e pedale a tavoletta. Siamo in ritardo. Ci aspetta a Todi la presidente della Regione. Vittorio lo incalza. «Sei rincoglionito, vai come una lumaca». Jack invoca le attenuanti generiche, «Vittorio, ho dormito nove ore in tre notti». Tenta con la mozione degli affetti, «Voglio vivere ancora due anni, devo pensare ai miei otto figli… Vittorio, in fondo non sei cattivo come sembri». Acquattata nel buio, dietro, la ragazza, una studentessa padovana, aspetta silenziosa e paziente che Sgarbi si ricordi della sua esistenza. Apro pagina 170 del suo “viaggio sentimentale” e leggo: “…Acquistata a quattordici anni la prima Lambretta, mi ero spinto fino a Padova per vedere Giotto nella cappella degli Scrovegni…”. Ragazzo e già turista per amor dell’arte. Il salto di qualità con la patente. “Un milione di chilometri su e giù per l’Italia con una Volkswagen verdona targata Ferrara 139414l, a puntare i fari di notte nei primi anni 70 contro le architetture palladiane”. Sbircio da dietro i piedi nudi di Sgarbi piantati sul cruscotto, il berretto di Jack e penso a Jacopo della Quercia. Per carpire quanto di più intimo dell’uomo più frenetico e visibile del pianeta, che diventa invisibile per eccesso di frenesia, devi andare a Lucca, due pagine dopo, la 172, da Ilaria del Carretto dormiente nella cattedrale di San Martino: “…la prima volta che riconobbi la possibilità che la bellezza potesse abitare in un’immagine, calarsi nel marmo e scaldarlo più che fosse carne”. Per mettergli il sale sulla coda, se non sei un’opera d’arte e nemmeno una bella donna, devi essere almeno una bella domanda. E la domanda è: “Ilaria del Carretto, è dunque lei, una statua in marmo, la donna della tua vita?”. Vittorio non si nega. «La mia prima, grande emozione figurativa. Saperla a Lucca, mi faceva amare Lucca, ci tornavo di notte, anche quando era inaccessibile, solo per starle vicino. Ilaria cambiò la mia vita, soppiantò la parola e fece di me, venticinquenne, a Vicenza, il più giovane sovrintendente d’Italia… Che cazzo fai Jack?». «Siamo a secco, Vittorio, devo fermarmi per forza». Scivolando nell’associazione libera, tra tele, statue, beate e vergini, da Cima di Conegliano a Correggio, si arriva a Sabrina Colle, dodici anni e non ancora fatta santa al fianco di Sgarbi. Donna da venerare per quanto somigliante a una delle sue Madonne, in una vita spesa a collezionare sesso rapinoso dietro le tende, nei bagni, nei sottoscala. «Difficile trovare una donna così attraente e allo stesso tempo comprensiva. In una maniera non premeditata, io e lei replichiamo un celebre accoppiamento novecentesco, quello tra Sartre e Simone de Beauvoir, dove la convinzione della propria spiritualità fonda un rapporto amoroso che prescinde dalla gelosia o dalla proprietà dei corpi». Il sesso annoia la Colle, non lui. «Le donne, come le opere d’arte, sono territorio di infinite sorprese. Io con loro applico il principio cristiano dell’ama la prossima tua come te stesso. Purtroppo il mondo femminile non resiste al tempo. Marilyn è Marilyn perché la morte l’ha sottratta alla decadenza. La Bardot non è più la Bardot, anche se è sempre la Bardot. A differenza delle Madonne su tela, le belle donne si decompongono, a volte in modo armonioso, altre volte meno». Il Tempio della Consolazione ci avvisa che siamo a Todi. «Finalmente illuminato come Dio comanda». Dio sarebbe lui, Sgarbi, che ha spiegato ai locali come dare luce alla chiesa rinascimentale. Brutalmente sottratti al loro presepe, presidente della Regione, sovrintendente, sindaco e compagnia apprendono da Sgarbi, tra un brindisi precipitato e una fetta di panettone ingoiata, che per mettere su la mostra del Faenzone, misconosciuto pittore manierista, ci vogliono sei mesi, non due anni (“Voglio inaugurarla per la fine di giugno”) e che, intanto, sarà il caso di mettere in cantiere tra Terni e Orvieto la mostra di Piermatteo D’Amelia. Il tempo di chiedersi perché l’esagitato faccia anche le scale di corsa e siamo già in via della Misericordia, sgranati, dieci sotto zero, dietro la lepre Sgarbi in giacca e camicia (a differenza di Clark Kent non ha bisogno di strapparsele di dosso), nel frattempo introdottosi nell’abitazione di un collezionista compulsivo d’opere d’arte, che sta spiegando il trittico di Guttuso: «Lei con la testa da medusa è Marta Marzotto, lui con la faccia da scimmia è quello snob comunista di Lucio Magri. Interessante che un non grande pittore d’ispirazione civile come Guttuso abbia voluto dipingere il suo tormento privato…Quest’anno ricorre il suo centenario, faccio un omaggio a Venezia e lo chiamo Guttuso e la gnocca o La passione del cornuto...». Riconosce con un lampo di libidine un Giorgione giovanile. «Se me lo presti lo esponiamo a Palazzo Grimani», mentre è già ventre a terra in direzione del Palazzo del Vignola. Chiunque abbia portato un bambino in un luna-park, sa cosa intendo. «Perfetto per la nostra mostra» approva Sgarbi che intanto va assumendo irreversibilmente le fattezze di Nosferatu. Jack ha saltato la cena, ma è abituato. Si confida, incollato al suo volante. «Prima o poi scriverò i miei quindici anni con Sgarbi. Sarà una bomba. Vittorio mi ha dato il permesso. Come quella volta che il vescovo entra in bagno e lo trova che sta smanettando una cameriera e Vittorio gli fa: sparisci parroco!». Non si mangia, non si dorme. Profitto di Vasco Rossi che, dalla radio, canta Vado al massimo, per insinuare. «Ma quali sostanze! Se assumo la cocaina è lei che si eccita». Sono le dieci di sera e il tappeto ora è Chopin, lanciati verso Roma, io, Jack, Vittorio e la ragazza, probabilmente la stessa di prima. Apro il libro a pagina 129 e dichiaro il mio entusiasmo per il San Giuseppe con il Bambino, una tavola di Piazzetta. Il bambino ha un’aria demoniaca e Giuseppe confessa il suo delirio di paternità. Non so come, finiamo a parlare di Sgarbi. Che, a questo punto è chiaro, è il contrario di Narciso. Non sta lì a bearsi allo specchio, ma usa il suo smisurato ego per sparire alla propria vista. Samurai e predone allo stesso tempo, il viaggio è la sua alchimia per trasformare il metallo in oro, viaggiatore sensazionale più che sentimentale. Non può fermarsi, se si ferma è perduto. Il suo occhio è quello del ciclope, moltiplica mostre e dipinti invece che pani e pesci. «Ero Sgarbi già a nove anni in collegio, quando leggevo Baudelaire nascosto dentro il messale e poi via via, passando dai cessi alla turca all’ovale, D’Annunzio, Apollinaire, Cardarelli». Mentre parla, compulsa rapido la tastiera del cellulare. Sta preparando un programma per Raiuno, debutto previsto a marzo. «Saviano ha dimostrato con la sua aria patibolare che ci si può far ascoltare in televisione anche parlando per più di due minuti. Non faremo un suo contraltare, ma una cosa diversa. Tratteremo di valori. La prima puntata sarà su Dio, ospite il Dalai Lama». Sgarbi rispetta Saviano, detesta Travaglio e non stima Vendola. «Dovrebbe togliersi di mezzo solo per aver creduto alle pale eoliche, l’aggressione al paesaggio più turpe degli ultimi dieci anni. È un mistero come la destra non sia riuscita ad annichilire un tale poetastro dall’enfasi infantile e dall’ingenuità parapolitica. Uno che, pur avendo letto Leopardi, ha contribuito a distruggere una terra unica al mondo come la Puglia». Sono lì, aperto a pagina 200, che mi faccio raccontare la vita e la villa del barone Fersen, meraviglia caprese, quando, poco prima della mezzanotte, varchiamo i cancelli di Villa Polissena, storico rifugio dei Savoia, tre ettari di giardino. «Siamo ospiti di Brachetti Peretti, consorte di Mafalda d’Assia, petroliere dell’Api e imprenditore dell’eolico, per questo da me massacrato. C’è anche Rosy…». Immagino che non sia Rosy Bindi e infatti è Rosy Greco. La visione stavolta non è un Cristo del Bellini, ma uno che sembra un docente della Sorbona ed è invece Fulvio Pierangelini, il più celebre cuoco d’Italia. Sgarbi divora i suoi spaghetti al pomodoro, nel frattempo spiegando ai commensali tutto sul “legittimo impedimento”, prima di tornare sull’eterna questione, la donna. «La mia teoria è questa: la fedeltà, tipica dei cani, si tormenta con l’assenza, la costanza invece premia la presenza. Meglio dunque essere costanti che fedeli. Per compensare l’infedeltà io sono affidabile, se ti dico una cosa la mantengo. Infedele, costante e affidabile, questo sono io. Le donne per me sono come le opere d’arte, esistono solo quando le vedo», fa consapevole di avere tutti, dame, aristocratici e facoltosi, adoranti ai suoi piedi. Si finisce a notte fonda giù nel gigantesco hangar, dove lo squalo finto in fondo alla piscina è una delle mille ricreazioni. Sgarbi e Brachetti, coppia al calcio balilla, battono facile Jack e Rosy Greco. Alle tre parte la proiezione in cinemascope di Apocalypto, geniale film di sguardi e squartamenti, regia di Mel Gibson. Nel buio mi chiedo se Sgarbi, dal pallore sempre più zombesco, dorma o stia affondando un incisivo sul collo della padovana, sempre più simile alla Schiava turca del Parmigianino. Le luci si accendono su Jack sorpreso a ronfare come una creatura sotto il suo berretto, a gambe larghe, le mani in tasca, quasi caravaggesco. Tra poche ore Sgarbi prenderà l’aereo per Palermo. «Vieni con me a Salemi?». Declino vigliaccamente. La notte dopo, alle 3 e 38, mi arriva l’sms: «Ti sei perso cose formidabili tra cui due case di suore con vecchi tra gli 80 e i 102 seduti in stanze quadrate, immobili, silenziosi, davanti a un televisore spento. Da Villa Polissena a Villa della Fine». Quasi quasi lo raggiungo a Salemi, mi dico, ma mentre lo dico lui è già a Venezia, anzi a Cortina, no, in viaggio per Milano, chissà dove. © RIPRODUZIONE RISERVATA