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 2011  gennaio 14 Venerdì calendario

L’INCUBO DI UNA NUOVA GUERRA CIVILE FA TREMARE BEIRUT E IL MEDIO ORIENTE

Che il Libano fosse sull’orlo del baratro era chiaro da mesi. A Beirut la gente già si stava abbandonando ai ben conosciuti incubi della guerra civile, preparandosi alla spallata: cioè l’uscita dall’esecutivo degli undici ministri di Hezbollah e le conseguenti dimissioni del governo. Il momento è arrivato quando il premier Saad Hariri è partito per Washington e ha incontrato il suo alleato più importante, il presidente Usa Barack Obama. A quel punto la coalizione di governo si è sfaldata. Motivo? Semplicissimo. Hariri si era rifiutato di cedere (a priori) a un ricatto. Non riconoscere la decisione del tribunale voluto dall’Onu, che sta per rendere pubbliche le sue accuse nei confronti dei presunti responsabili della strage di San Valentino (14 febbraio 2005), quando furono annientate 22 persone. Un massacro che aveva come obiettivo l’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri, che era il padre dell’attuale primo ministro dimissionario. Il problema è che i giudici sarebbero giunti alla conclusione che i responsabili della strage appartengono ai vertici dell’Hezbollah. Un’accusa che il leader del «partito di Dio» Hassan Nasrallah ritiene «infamante» . Non soltanto la respinge, ma dice che è frutto di un complotto «sionista e americano» . Quindi, a scopo preventivo, via dal governo e via alla campagna propagandistica che rischia di creare le condizioni di un nuovo bagno di sangue. In questa drammatica vicenda è coinvolto mezzo mondo: non soltanto la Repubblica dei cedri, la Siria (che in un primo tempo era stata indicata come la mente organizzativa della strage), l’Iran che sostiene Hezbollah, l’Arabia Saudita (Damasco e Riad si erano alleate per allentare la tensione), Israele che vigila sulla sua frontiera nord, tutti i Paesi della regione che temono un effetto domino; naturalmente gli Stati Uniti, ovviamente la Francia che del Libano si ritiene la madrina, e persino l’Italia. Anzi, l’Italia ha un ruolo tra i più importanti: perché abbiamo un contingente militare nel sud del Libano, sotto la bandiera dell’Onu, ma soprattutto perché il presidente del Tribunale internazionale che indaga sulla strage è un italiano, Antonio Cassese. Giudice di chiara fama e assai stimato, al quale spetta un compito proibitivo: dalla decisione dipende infatti quel che accadrà in Libano. In verità l’annuncio dei nomi degli accusati era previsto prima di Natale. Ma ormai non si può più aspettare. «Chi è colpevole è giusto che paghi» , ha detto un preoccupatissimo Amr Moussa, segretario generale della Lega araba. Per contro, c’è il concreto rischio di un conflitto sanguinoso, perché l’Hezbollah in Libano è potentissimo e non intende recedere dalle sue posizioni intransigenti. Contando sul sostegno dell’altro grande partito sciita Amal (gli sciiti oggi sono la maggioranza relativa della popolazione), dei cristiani guidati dal generale Aoun, e di altri ex signori della guerra, come il leader druso Jumblatt, che cinque anni fa si schierò contro Siria e Hezbollah, ma poi è stato lasciato solo, e oggi è tornato fedele alla regola: «Se non riesci a sconfiggere l’avversario, alleati con lui» . È una corsa frenetica. Dopo Washington, Saad Hariri è arrivato a Parigi per vedere Sarkozy, e proseguirà per la Turchia dove lo attende il premier Erdogan, uno dei pochi leader della regione che ha la credibilità e il prestigio per tentare una mediazione. Il compromesso che alcuni cercano è di non fare subito un nuovo governo libanese. Senza un esecutivo che accetti o respinga l’annuncio del tribunale internazionale, l’impatto sarebbe minore. Ma si tratta di scenari di pura sopravvivenza. Beirut trema.
Antonio Ferrari