Marco Imarisio, Corriere della Sera 14/01/2011, 14 gennaio 2011
SERGIO, 660 CHIODI AL GIORNO: «AVRO’ TEMPO PER LA MENSA?» —
Questo è il primo giorno di silenzio. Oggi è possibile ascoltare le voci di dentro, oggi tocca a loro, agli operai. Ai 320 bulloni e 660 chiodi quotidiani che Sergio Motta fissa in posizione eretta, da seduto non è possibile, nell’abitacolo della MiTo, tenendo tra le braccia una macchina ad aria compressa da 5,8 chili, per un totale di 120 cinture di sicurezza al giorno.
I turni sono e resteranno da 8 ore, e se come questa mattina si tratta del primo, che inizia alle 6, per arrivare con i mezzi pubblici da Crescentino, provincia di Asti, significa sveglia alle 3.50. «Ho ascoltato. Ho fatto domande. Non quelle che pensate voi, della vostra politica non me importa nulla. Io ho bisogno di sapere se con questi nuovi ritmi di lavoro non corro il rischio di imbarcarmi, e come verranno calcolati i tempi di lavoro, che poi sono quelli che definiscono il mio spazio in linea» .
Sergio, alle Carrozzerie dal 17 anni, gli ultimi 13 al reparto montaggio, il più duro e quello che sarà probabilmente decisivo nel voto, si interrompe. L’operaio si è accorto di aver perso l’interlocutore. «Imbarcarsi» non è un termine nautico, è un verbo da fabbrica. A Mirafiori ci si imbarca quando non si sta più dietro alla catena di montaggio, il nastro scorre e nel rincorrerlo finisci addosso all’operaio che ti precede. Il tempo di lavoro invece è la definizione dei minuti che ti servono per mettere un gommino, o le guarnizioni di plastica della portiera, e ogni operazione, ogni gesto ripetuto all’infinito, è compreso in uno spazio che sta tra i 60 e i 180 secondi. Prima decidevano i capi squadra, adesso diventerà tabellare, a dirla in sintesi. «Ecco, io voglio sapere questo. Ho ascoltato tutte le campane, ma non è giusto che ce debbano essere due, perché il lavoro è uno solo, ammesso che ci sia» .
La porta 2 di corso Tazzoli è ancora lontana dal loro mondo, è solo una quinta teatrale, finalmente poco affollata, con il proscenio lasciato a chi deve decidere del proprio futuro. Una volta varcati i tornelli ci vogliono altri 15 minuti per arrivare alla vera fabbrica. E anche le distanze diventano importanti, in questa storia. Se cambiano le pause, dice Sergio, io ce la faccio a correre in mensa e tornare? Di questo hanno parlato, gli operai che ieri hanno partecipato alle assemblee interne indette dalla Fiom, e quasi tutti affermano di avere presenziato anche all’illustrazione dell’accordo fatta dai capisquadra Fiat. «Non ti dico come voto, ma là dentro nessuno ha parlato di massimi sistemi. Abbiamo chiesto queste cose, che per voi sono piccole, ma per noi sono la vita» . Sergio fa parte di quel 47%di metalmeccanici non iscritti a nessuna sigla sindacale, i «neutri» che in questi giorni convulsi entravano in fabbrica dritti come un fuso per schivare i giornalisti. Accanto a lui c’è il suo amico Damiano («no, il cognome non te lo do, per prudenza» ), che dopo 17 anni alle presse, adesso di mestiere monta le canaline (i sistemi di scorrimento dei finestrini) di un modello che non se la passa bene, visto che lui e la sua squadra a febbraio sono attesi dalla cassa integrazione. «Nel 2007 mi hanno operato al tendine carpale, sono uno di quelli che rischiano di sfasciarsi» , altro modo di dire che però non necessita di spiegazioni. «Noi operiamo su macchine automatiche, dalle quali non ti puoi difendere, quelle vanno avanti comunque. Quindi voglio capire come verranno gestiti gli Rcl, i lavoratori a ridotta capacità lavorativa, perché tra poco sento che diventerò uno di loro. Tutto qui. Il voto? Segreto, no?» .
È l’unica cosa che tutti vogliono sapere, la domanda di rito. Alle 13.30, orario limite di ingresso dell’ultimo turno prima delle aperture delle urne, si zittisce anche l’altoparlante dell’Unione sindacale di base, dai decibel che manco a un concerto dei Metallica. Gli ultimi operai arrivano trafelati ai tornelli. Uno di loro si volta mentre estrae il badge dalla tasca. «Andatevene tutti affan..., tanto da domani vi siete già dimenticati di noi» . E forse uno degli aspetti più tristi di questa storia sta nel fatto che ha ragione lui.
Marco Imarisio