Antonio D’Orrico, Sette 13/1/2011, 13 gennaio 2011
Biografia di Teo Teocoli raccontata da lui stesso
Signor Teocoli ma lo sa che ha scritto, con “Io ballo da solo”, un libro meravigliosamente malinconico? «Io l’avrei fatto tutto malinconico. Però il patto era di raccontare la mia vita come uno show e allora ci ho messo un po’ di sketch per equilibrare. Ci ho messo la volta che giocai a dadi con Brigitte Bardot che mi diede dello sfigato, anzi dello sfigatò. Ci ho messo la cena a base di aragoste con l’Avvocato Agnelli in Costa Azzurra (non ne assaggiai nemmeno una perché non avevo una lira e non avevo capito che il conto lo pagava lui). Ma la verità è che quando mi trovavo in posti da jet set io pensavo sempre a mia madre, alla sua cucina nella casa di ringhiera dove viveva, con i pentolini tutti ammaccati, con la caffettiera napoletana tutta ammaccata pure lei. Di mia madre mi è rimasto solo il suo ditale, faceva la sarta. Era giovane, bella, bionda e la trattavano male al lavoro, come trattano male gli extracomunitari oggi. Esattamente. Sono un malinconico. Sono cresciuto in pieno dopoguerra, un mondo in bianco e nero». Allora, se permette, questa intervista io la farei tutta malinconica. «Mi fa felice. Però se esagero me lo dica che così ci mettiamo un bello sketch per equilibrare». Cominciamo da Reggio Calabria dove lei, piccolissimo, viveva con la nonna. «Se l’Italia si dividesse davvero in due, come vuole qualcuno, io, nonostante sia un simbolo di milanesità, me ne tornerei al Sud. Sento il richiamo della terra dove sono nato e cresciuto. Reggio è una piccola San Francisco. Ma non gliene frega niente a nessuno. I reggitani sono contro il turismo. Via Marina è il più bel chilometro del mondo. Non lo dico io, l’ha detto D’Annunzio. E ora, dopo gli ultimi restauri, è lunga cinque chilometri. Mi ricordo che la notte mi incantava vedere Messina tutta illuminata. Di giorno andavo in spiaggia. Mi fermavo a guardare un barcone tirato in secco, vecchio, marcio, e fantasticavo di ripararlo e di andarmene per mare. Salivo sugli alberi a mangiare i fichi neri e la nonna gridava: “Scinni (scendi), scinni che ti ammazzi. Scinni. Che mi venga ’na morte subbitanea e così muoro ed è finita. E quando sono morta vedrai”. La morte era sempre presente. La morte subbitanea».
Suo padre e sua madre dov’erano?
«A Milano, in cerca di fortuna. Prima avevano tentato con Genova, che somigliava di più al Sud. Sul lungomare di Genova mia madre perse mio padre. Cominciò a vagare disperata. Poi passò un tram con mio padre sopra e mamma rincorse il tram gridando: “Fermatevi”. “Mamma, ma questo è il Dottor Zivago”, le dissi una volta. “Che ne saccio io del Dottor
Zivago”, mi rispose».
Poi i suoi arrivano a Milano e lei fa il ricongiungimento, come si dice oggi. «Un viaggio di 40 ore, il primo della mia vita. A Milano mi trovai completamente solo e con abitudini strane, sospette per il Nord. All’asilo, tutte le cose che vedevo le prendevo. Le suore chiamarono mia madre: “Suo figlio ruba”. Non avevo cognizione della proprietà. A Reggio se trovavi una cosa, un legno, una ruota, la portavi via. Sempre le suore: “Vogliamo insegnargli ma lui non capisce”. Mia madre: “Come non capisce?” “Non capisce cosa gli diciamo”. Era vero, io parlavo calabrese. Ero felice solo quando, finita la scuola, l’estate tornavo a Reggio e mia nonna, con dei sacrifici enormi, noleggiava per l’occasione la carrozzella per portarmi a casa. Mi sedevo davanti accanto al conduttore. Quando arrivavamo al Rione Marconi, tutti uscivano e
gridavano: «Ehi! È arrivato Ninillo». Ninillo: diminutivo di Nino a sua volta diminutivo di Antonio». Però l’estate non durava per sempre.
«No e tornavo a scuola. La solita musica. Le prof: “Sei sporco, hai le unghie nere, non sei pettinato”. E io pensavo: “Ma cosa vogliono da me questi qui?”. Anche perché ero un bel ragazzino, più bello degli altri, onestamente, con la mia frangetta. Così mi arrabbiavo, mi ribellavo, da buon reggitano, e allora mi compativano un po’. Stavo fermo all’ultimo banco tutto il giorno senza ascoltare niente, lavoravo di fantasia. Capivo che ero in mezzo a un ciclone che non apparteneva alla mia vita. Ma ero un duro. Nonostante ciò, riuscivo a polarizzare tutta la classe con le mie storie inventate. Ci mettevamo in fondo alla classe e inventavo storie di carovane, di banditi. E loro ridevano, ridevano».
Da dove venivano queste storie, dai film che vedeva? «No, all’epoca avevo visto sì e no tre film ed erano i film con Claudio Villa, quelli che i preti davano all’arena estiva di Reggio e dove non si capiva un cazzo perché il pubblico urlava. Quando lui tradiva lei, gridavano: “Figghiu i puttana, curnutu”. Sembrava d’essere allo stadio. Non c’era la radio, non c’era la televisione, non c’era niente, la gente quando vedeva questi film si dava alla pazza gioia. E fu proprio un film a mettermi definitivamente nei guai. Ero in terza elementare e entrai in una classe di quinta vuota. Avevo visto che c’erano delle penne stilografiche, le Pelikan, quelle nere e verdi, roba da sciuri. Le requisii tutte, saranno state una trentina, e le nascosi. Poi cominciai a prendere quelli di quinta a uno a uno. Gli chiedevo: “Per caso, hai perso una penna?” “Sì”. “Cos’era?” “Una Pelikan“. “Verde e nera?” “Sì”. “Aspetta un momento”. Tornavo con la penna: “È questa?” “Sì, è proprio la mia ma dove l’hai trovata?” “Non posso dirti niente. Riprenditela”. La storia si venne a sapere e una professoressa che era uguale, precisa, alla professoressa di Amarcord, pettinata, truccata, rossetto, sopracciglia alla Mina, tailleur stretto da figa (ma non lo era), non mi perdonò la mia voglia di protagonismo. Ma io non ero un ladro, ero il detective, quello che scopriva il furto. Risolveva il caso. Avevo visto un film all’oratorio con Humphrey Bogart e sognavo di fare il detective. Invece fui bocciato».
Nel libro la figura di suo padre sembra un po’ quella di un convitato di pietra. «Mio padre era assente ingiustificato. Si diceva che fosse in giro a cercare lavoro ma non combinava niente. Mia madre diceva: “Sai, lui non riesce a lavorare sotto padrone”. Faceva una fatica disumana a cercare di stare in un posto. Era orgogliosissimo, fin troppo. L’orgoglio è stato la sua rovina. Dopo che è morto, ho cercato di capirlo. C’era stata una guerra e lui era stato sette anni in Marina, su un dragamine. Il bombardamento degli inglesi a Taranto, dove lui si trovava, fu terribile. Lo sconvolse. Io sono nato nel 1945. Lui si deve essere innamorato di mia madre più o meno intorno all’armistizio. Deve essere stato un momento di grande gioia per mio padre: la guerra finiva, un amore cominciava. Sono stati assieme trent’anni. Ci deve essere stata una base di affetto, di amore. Ma una volta venuto al Nord, mio padre si è un po’ perso. Alla fine, quando ha avuto l’ictus parlava greco antico. Chissà che reminiscenza! Perché il nostro cognome vero era Teocles. Voglio ricordare una cosa tenera di mio padre, che è stato un uomo molto duro. Quando prendevamo il treno per Reggio c’era l’assalto della folla, lui mi prendeva in braccio e mi buttava dentro lo scompartimento dal finestrino in modo che potessi sedermi e prendere posto. Perché sapeva che un bambino vuole stare al finestrino, guardare fuori, guardare il mare. Per un bambino stare seduto in mezzo, in treno, è la morte».
A scuola come finì?
«In qualche modo, a furia di copiare, di trovare stratagemmi, ce la feci. Mi iscrissi a ragioneria. Allora non si scappava, era il sogno dei poveri. Infatti, mio padre mi diceva: “Tu fai ragioneria, ti pigghii u diploma, vai in una banca e ci stai fino a sessant’anni”. “Minchia, papà. Ma tu mi vuoi proprio ammazzare!”». Non ci andò in banca vero?
«Ero un ballerino straordinario, il più bravo di Milano. Entravo nei locali facendo le scale come Johnny Travolta nella Febbre del sabato sera. Mi mettevo al centro della pista. Elegantissimo. Il mio sarto era un certo Toni Casale, vestiva tutta la malavita. Polarizzavo le ragazzine. Ero bello, simpatico, spiritoso. Ma a volte avevo reazioni pesantissime, che mi sono portato dietro tutta la vita e che secondo me erano sfoghi dei periodi duri che avevo vissuto. Scatti di ira davanti alle ingiustizie. Ma la reazione eccessiva mi faceva poi passa-re dalla parte del torto. Sono stato litigioso, soprattutto con i potenti, e non me ne pento. Durante le mie sfuriate, facevo godere tutti quelli che erano sottomessi e che non riuscivano a ribellarsi. Solo che poi io pagavo, pagavo pesantemente. Tanti hanno provato a mettermi i piedi in testa. Fatma Ruffini, Antonio Ricci. Ma io sono stato vent’anni in una cantina che si chiamava Derby, tornavo a casa alle cinque di mattina tutte le notti. È stata la mia università. Che guerra per riuscire a lavorare al Derby! Non dico fare cento serate ma almeno l’apertura e la chiusura. Una competizione feroce. Eravamo cento, centocinquanta persone che hanno vissuto per vent’anni sempre insieme, giorno e notte, soprattutto la notte. E quando è chiuso il Derby non ci siamo più visti. Per cui quando sono venuti a Ibiza con aerei privati a farmi firmare contratti da sedici miliardi di lire per lavorare a Mediaset e poi hanno cercato di impormi copioni dove dovevo fare lo scemo con il Gabibbo li ho mandati a quel paese. Sa come sono fatto davvero io?».
Credo che sto cominciando a farmene un’idea e non mi dispiace proprio. «Come sono fatto io lo capì subito Enzo Jannacci, il più grande, e mi scrisse una canzoneritratto, Il dritto. Quella che fa: “Festa alla casa popolare al tre (che era dove abitavo io), il dritto non voleva cantar, non voleva ballar, guardava”. Jannacci capì che venivo da un’altra storia, da un’altra vita. Ero un playboy. Ero molto bello, simpatico, un po’ celentanesco (che allora funzionava), gran ballerino. Ero “il Teo”, che non si sapeva cosa facesse di preciso ma era già un personaggio. Potevo frequentare le donne più belle del mondo, potevo sposare le più ambite ragazze dell’alta borghesia milanese, se non altro riuscire a intortarle, e invece proprio in quel momento di mio splendore, abbandonai tutto per andare al Derby. Credo che c’entrino qualcosa i pentolini ammaccati di mia madre... Be’, che dice? È il momento di fare uno sketch?».
No, va bene così, è perfetto così.